È giunto il tempo per delle precisazioni, senza pretesa alcuna di esaurire una riflessione secolare per cui si son spesi teologi, filosofi, poeti, scienziati, ma con la urgenza viva di dire ancora e ancora quello che non bisogna mai dimenticare quando si ha a che fare con l’arte.
La questione è la seguente. Gli artisti cercano la verità delle cose. Lo fanno senza saperlo, inconsapevolmente, mentre creano. Ma ancorati con tutte le viscere a una sorgente di luce e ombra che continua a eruttare da tutti i secoli dei secoli. Cercano la verità più intima, più scabrosa, più ustionante, delle cose, quella nucleare. La cercano con un metodo rabdomantico, trasversale, di cui il primo strumento è l’ascolto.
Cercano il vero nel visibile e nell’invisibile. Gli artisti non sono dei dissociati dalla realtà; al contrario, sono uomini e donne che vivono così intensamente dentro la realtà da diventarne suoi privilegiati cantori, sue attentissime sentinelle.
Troppo spesso si ascoltano discorsi approssimativi, frutto di copia e incolla di frasi sentite dire o ripetere altrove, in cui si dipinge l’artista come una figura persa in un altrove sconosciuto, svolazzante nei cieli dell’etere, a mezz’aria, con la testa chissà in quale mondo disneyano/burtiano, troppo distratto per avvedersi delle pene o dei tormenti di chi abita efficacemente e seriamente invece l’aldiquà. Un essere volatile, dunque, piuttosto inutile, se così fosse, a onor del vero.
Occorre tenere a mente invece che l’arte è sempre stata e sempre rimarrà una grandissima inchiesta aperta sul vivente, come bene scrive uno dei poeti più importanti e riconosciuti della poesia italiana contemporanea. È un gesto che contiene una domanda continuamente tesa verso l’assoluto che si declina nelle forme, uno sguardo che si innamora di quelle forme e poi le tira fuori come musica, parole, in un vortice di materia luminosa che non conosce direzione che non sia, prima di tutto, la più vera tra le vere, quella della chiara, luminosa, desiderata Conoscenza.
Non a caso, nella pratica, l’arte conduce a intravvedere la soglia del mistero, a nominarlo. Non a caso, invero, gli scienziati del Cern che cercano la materia oscura, il bosone di Higgs, la particella di Dio (tutte metafore poetiche, sempre non a caso) chiamano a rapporto i poeti, gli artisti della parola o della visione, quando comprendono che le capacità umane si assottigliano quando si giunge alla porta dell’ignoto, del mistero che abita la terra e l’universo. E allora necessitano dell’ausilio di un linguaggio altro, diverso, che legge il mondo e il reale in maniera obliqua.
Ma questo dovrebbe essere noto a chi abita la civiltà occidentale, a chi ha una cultura media, non occorre citare Monteverdi, Pascal, Tolstoj, ripetere le parole di Platone, o quelle di John Keats quando dice “bellezza è verità e verità è bellezza” per tornare a ricordarsi di questo. O forse sì?
Non si scrivono poesie perché è bello, perché ci si sente strappati da qui per approdare in un fantastico e indefinito “lì”, non si compone musica per tirarsi fuori dalla vita, ma per affondare lo sguardo ancora più addentro, non si dipinge una madre con in grembo il figlio perché è un’immagine tenera e accarezza i sensi. I sensi degli artisti non sono sregolati, sono così aperti e assorbiti dall’obbedienza cui si sono votati da essere tesi fino all’inverosimile, sempre in accordo con il magma profondo sotto la terra e con il giro dei pianeti in aria, sempre riceventi i tormenti e gli incanti del loro proprio tempo, e poi pronti a coglierne le sprezzature, le dissonanze, le meravigliose armonie, per provare a ridirle.
La società umana per oltre settant’anni ha subìto un indebolimento, lento e inesorabile, un impoverimento intellettuale e spirituale, voluto e perseguito scientemente dal potere che ci ha condotti dritti allo scempio cui assistiamo oggi: l’arte ridotta a mera “espressione” o “distrazione” (per dirla con Pascal), qualcosa che ci aiuta al massimo a sopportare il corso noioso delle ore. E da qui in poi la strada è stata pronta: politici che in diretta mondiale affermano blasfemie, la diluizione del tutto nel tutto, l’entropia dei social che rendono apparentemente l’universo piatto, tutto comunicabile, motivo per cui non si riesce più a distinguere il vero dal falso, ciò che è opera d’arte da quello che è solo uno schizzo di pennello su una tela colorata, ciò che è frutto di studio, lavoro e intenzione, da ciò che non lo è.
Anzi, si è arrivati perfino ad abdicare a qualsiasi istanza di comprensione, all’impossibilità di praticare qualsiasi discernimento, di esprimere alcun giudizio su alcuna esperienza, che sia estetica o meno, perché intrisi di una sottocultura a basso costo che impone il suo diktat di relativismo e passività sempre e comunque e in qualsiasi circostanza. Ma la storia insegna, l’antichità rimane indelebile nelle parole dei grandi filosofi che ci hanno insegnato che l’arte è uno dei metodi privilegiati, insieme alla scienza e alla matematica, che l’uomo ha a disposizione per giungere alla verità, al senso.
Prima di tutto la ricerca di un’artista è tesa verso il conseguimento di un ordine preciso che si enuclea nell’opera. Quello è il compito e l’assillo primario di un’artista. Rosario Assunto, grande pensatore del secolo scorso, ci insegna che le strutture del poema sono e debbono essere rispondenti alle strutture portanti dell’universo, indicandoci una volta e per tutte che l’opera umana, d’arte o di altra natura che sia, per partecipare al grande gioco del mondo, per dialogare all’altezza del destino del mondo, deve tendersi in alto, in verticale, uscire continuamente da sé e dal suo perimento biografico ed empirico per cercare di colmare la distanza che separa “l’io” dal “tutto”.
Solo così, solo a questa altezza e sorretta da questa intenzione l’arte potrà divenire tale e potenzialmente rimanere come brandello di luce che si proietta sul senso delle cose, continuando a saziare l’uomo di quella sua domanda inesauribile di conoscenza e di passione per l’eterno.
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