In italiano memoria indica sia il contenuto stesso del ricordo (la Giornata della Memoria) sia la capacità di ricordare (ha una buona memoria). La memoria può essere del singolo o di un’intera comunità. La capacità di ricordare costituisce una delle doti principali dello spirito umano.

La parola è dal latino memoria, a sua volta derivazione di memor memore, “colui che ricorda”. La radice su cui la parola è formata, e per quale la linguistica postula una forma primitiva *mer- oppure *smer– (con diverse varianti), è presente in varie lingue: in sanscrito smarāmi “io ricordo” col sostantivo astratto smṛti- “ricordo”, in avestico (la lingua del testi sacri della religione zoroastriana) hišmaraiti “si rircorda”, e in antico inglese il verbo mimorian “ricordarsi”. In latino memor e memoria sono termini diffusi e produttivi, che danno luogo a molte derivazioni: memorialis, memoro (col composto commemoro), immemor e altre.



Ma quello che vorremmo notare qui è che la radice accanto a questo senso di “ricordare” ha anche altri valori, che si trovano in diverse lingue indoeuropee. In varie attestazioni *mer– assume il senso di “prendersi cura”, col conseguente passaggio della radice al valore accessorio (e spesso negativo) di “pensiero, preoccupazione”: così in greco nel sostantivo mérimna “preoccupazione” e nel verbo mermērízō “riflettere, meditare”, con l’aggettivo mérmeros, che ha assunto il valore anche più forte di “funesto”. In area germanica abbiamo il gruppo di parole collegato col gotico maurnan “darsi pensiero” o “essere triste”: al gruppo appartiene per esempio l’inglese mourn “ricordare tristemente, compiangere”. In realtà l’inglese ha sostituito le sue parole antiche per “ricordare” con una parola ripresa dal latino (nel XIV-XV secol secolo), remember (da rimemorare del latino medievale).



Che insegnamento trarre dalla compresenza nella medesima radice di questi due valori fondamentali? Per avere una risposta dobbiamo allargare l’analisi ad altre parole connesse con l’idea del ricordo, a partire dal latino recordari, formato su cor “cuore”. Questa parola mostra come ricordare sia fare appello al proprio cuore, cioè alla parte più elevata e nobile del nostro essere, perché il cuore per l’uomo antico è sede dei sentimenti e dell’intelligenza. Anche nel tedesco moderno “ricordarsi” è sich erinnern, che fa capo a un antico innaro “parte interna”: la memoria come capacità di interrogarci e di recuperare quasi scavando dentro di noi.



In molte lingue l’idea del ricordo è espressa con parole collegate con la radice del ‘pensare’, la radice *men– di mente, in tutte le forme che essa può assumere: cito per esempio, fra il moltissimo materiale a disposizione, il greco mé-mnē-mai “mi ricordo” o mi-mnē-skō “io ricordo”, il latino me-min-i “ricordo”, re-min-iscor “mi torna in mente”, memento “ricorda!”, moneo “riporto alla memoria”, l’antico slavo pomĭněti “ricordare” (russo moderno pomnit’) e il lituano atminti “ricordare”. E poiché la memoria non può fare appello solamente a conoscenze vaghe destinate a stemperarsi col tempo, ma ha bisogno anche di essere continuamente richiamata aggrappandosi a elementi stabili e visibili, in molte lingue sostantivi che hanno originariamente il senso di “memoria” passano a indicare i monumenti, testimonianza concreta del ricordo: greco mnêma, russo pamjatnik (da *pa-menti-) “monumento”, lat. monumentum: anche memoriae, al plurale, nel senso di ‘monumento’ soprattutto nel linguaggio ecclesiastico.

L’analisi linguistica ci mostra dunque la stretta vicinanza tra capacità di ricordare e capacità di pensare. Anche secondo molti pensatori cristiani la capacità di ricordare costituisce una delle doti principali dello spirito umano, e viene associata a intelligenza e volontà (per esempio Agostino, Lettera 159, 2, 6, e per Dante, Purg. XXV memoria, intelligenza e voluntade sono le potenze che sopravvivono all’uomo dopo la morte).

La memoria è un patrimonio di idee e di dati ai quali attingere, e talora fare riemergere dal buio: senza memoria è impossibile stabilire una qualunque forma di cultura organizzata, e dunque di scienza, come ci ricorda il padre Dante: non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso (Paradiso V 41 s.). Ma ricordare significa anche fare i conti con sé stessi e con la realtà, e quindi preoccuparsene. Il ricordo si trasforma così spesso in un atteggiamento di simpatia per sé stessi e il nostro prossimo: un filo sottile separa l’attitudine al mantenere la memoria dall’attitudine a guardare con interesse e affetto il mondo che ci sta attorno.

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