Ci vuole del coraggio per affrontare una strada nella tempesta, ma – a differenza di quel che dice don Abbondio – il coraggio uno se lo può dare, se gli viene donato come corredo al compito a cui è chiamato. Siamo un po’ tutti vasi di coccio, in mezzo a vasi di ferro. Ma c’è Altro. Del resto, ci vuole anche del coraggio per rischiare un libro come l’ultimo di Gianluca Attanasio, Una strada nella tempesta. Attualità dell’esperienza di Gregorio Magno (Cantagalli 2021) che, fin nel sottotitolo, accetta di esporsi e di assumersi un compito.



Non si tratta della consueta e distaccata introduzione alla vita e all’opera di un grande padre della Chiesa, ma di rimetterne in gioco l’attualità e, più, precisamente, l’esperienza, cioè la possibilità che quel vissuto lontano possa ancora parlarci e farci da guida o, per usare i termini dell’introduzione di monsignor Camisasca, “avviare la ricostruzione dell’umano”, che è così urgente.



Si comincia con un quadro biografico, serio e inevitabile: Gregorio è uno dei migliori figli dell’aristocrazia romana, di famiglia profondamente cristiana, ma non per questo meno consapevole della grande storia della sua città e della profonda crisi che ormai da secoli l’ha investita. Siamo tra il VI e il VII secolo dopo Cristo: nessuna delle certezze storiche della Roma antica regge più. Gregorio è benestante, protetto da famiglia e ricchezza; è cristiano, con una forte vocazione alla solitudine e alla vita contemplativa e, se è lecito dirlo in questi termini, con la fortissima tentazione a chiudersi in questa nicchia protetta.



La vita attiva, però, arriva da sé, per obbedienza, non per scelta: prima come segretario del Papa, poi come Papa lui stesso, pur avendo lui frapposto tutte le resistenze che erano umanamente e cristianamente lecite, incluso il tentativo di bloccare il beneplacito dell’imperatore. Le resistenze però sono inutili e Gregorio, il contemplativo, nell’anno 590, si trova alla guida della Chiesa come Papa. Di Gregorio abbiamo la testimonianza di un’azione in favore della sua gente e opere esegetiche importanti e la traccia di un intervento che ha cambiato la storia del suo tempo, ben al di là di quanto i limiti e le condizioni umane avrebbero potuto consentite di immaginare.

Gregorio si trova a governare la Chiesa in una situazione difficilissima: crisi nei rapporti con Bisanzio, assedio longobardo (Gregorio non li pensa come nemici, ma come chiamati alla conversione), crisi economica, crisi culturale, epidemie di peste. In tutto questo, Gregorio guarda sempre e solo avanti: bisogna ricostruire e costruire, le fondamenta dell’antico e il nuovo, che attende di essere accompagnato. Si reagisce con le opere di carità, certo, ma, ancor prima con la preghiera e la penitenza, che riportano alle domande da cui tutto trae senso.

Non stupisce che la rilettura dell’esperienza di Gregorio nel volume di Attanasio si intrecci con quella dell’autore, anche lui un “ricostruttore”, come la fraternità sacerdotale di cui è membro. Non stupisce perché, appunto, si tratta di una rilettura dell’opera di Gregorio come incontro di esperienze. Titolo e sottotitolo non lo nascondono. Attanasio si muove con precisione millimetrica tra l’esigenza di fedeltà ai testi, che ci testimoniano l’azione di Gregorio, e quella della loro attualizzazione, che è, poi, lo stesso metodo usato da Gregorio nel proporre la Scrittura e i Padri ai suoi contemporanei.

Agostino scriveva che non si conosce se non ciò che si ama. Il volume non vuole essere la fredda presentazione delle dottrine e della prassi di un lontano uomo di Chiesa, ma il tentativo di farne proprie le ragioni, restituendone l’attualità. Gregorio Magno ne esce come una sorta di manuale vivente di sopravvivenza e resistenza umana.

Ecco allora che nei capitoli successivi vediamo snodarsi, a poco a poco, proprio quell’esperienza. Così, quando nel capitolo terzo si parla di “ascoltare insieme la parola di Dio”, si capisce che non si sta solo riproponendo il metodo di Gregorio, ma invitando il lettore a una seria immedesimazione, peraltro richiamata dall’autore stesso nella sua esperienza di educatore. È chiaro che Gregorio Magno guarda alla Scrittura come a un fatto che interpella, a cui porre domande e da cui lasciarsi interrogare. Non solo: essa è realtà una con la Chiesa, intesa come comunità.

Così, insieme con la Scrittura, la contemplazione non è cosa lontana, se riesce a permeare il respiro della quotidianità. Attanasio ce lo mostra, con l’estrema naturalezza con cui alterna citazioni di Gregorio e testimonianze di contemporanei, dai suoi studenti ad Alda Merini o Pavel Florenskij. E ci ricorda che la vita è prova: “Anche se a noi moderni può sembrare strano, secondo Gregorio è Dio stesso a mandare le tentazioni” (p. 68), e lo fa come Educatore per eccellenza.

In fondo, tutto ci ricorda che la vita non è un possesso di cui disporre, anche al di là di intuizioni che paiono giuste. La vita attiva è una necessità; per Gregorio a tratti anche una costrizione, ma il vero punto unificante è Gesù Cristo, in cui vita attiva e vita contemplativa sono state unite alla perfezione. Ancora una volta un apparente salto pindarico, da Gregorio a Dostoevskij: si amano degli esseri umani, non l’umanità. Il cristianesimo è concreto ed è attraverso la concretezza di una seria presenza umana che si può affrontare la sfida con la suprema delle tentazioni, quella del potere. Proprio e solo una lettura attualizzante nell’esperienza può riuscire a stabilire un parallelo tra un testo di Oriana Fallaci e il Commento a Giobbe di Gregorio Magno: “Il potere è una malattia che contagia anche chi crede di esserne vaccinato. È un diavolo che porta all’inferno anche gli angeli del paradiso” (Oriana Fallaci). “Chi si vede posto in autorità sopra gli altri, è portato ad avere un’alta opinione di sé. E siccome nessuno osa opporsi alla voce dell’autorità, la lingua del superiore troppo libera si sfrena a precipizio. Quando è lecito far quel che piace, uno finisce per persuadersi che tutto quel che gli piace è lecito” (Comm. Gb. V, XI, 17).

Che dire?  Certo l’approccio di Attanasio non è filologico in senso stretto, ma è, per usare un termine della tradizione aristotelica, “protrettico”: attraverso l’empatia, conduce all’intimità del testo, avviando anche, per chi lo desidera, un ulteriore approfondimento filologico. Attanasio dimostra di avere un saldo riferimento nei testi di Gregorio, ma non accetta – e fa benissimo – un modello interpretativo che parla del testo senza lasciare che, a sua volta, esso possa parlarci. È questo ascolto a rendere la lettura di Gregorio Magno una “strada nella tempesta”, una voce che riesce a parlarci, a riconoscere le tentazioni e rovesciarle: “Spesso l’uomo, per le virtù che ha ricevuto, diventa audace nella presunzione, ma Dio, per un mirabile disegno della sua bontà, tende davanti ai suoi occhi un laccio in cui cada” (Comm. Gb. IX, LVII, 87).

Gregorio è “Magno”, cioè “grande”, proprio perché è andato oltre se stesso; è stato un educatore e riesce ancora adesso a insegnarci che cosa significa educare: “Solo esaminando con cura noi stessi possiamo capire se le nostre parole sono motivate dal desiderio di far crescere le persone che abbiamo vicine oppure dettate dall’orgoglio, dall’ira e dal risentimento” (p. 149). L’educatore è chiamato a imitare la pedagogia divina, che segue la legge della gradualità, e, quindi, a non cedere a modelli esterni, che si sovrappongono alla situazione di chi si è chiamati ad accompagnare. “Chi predica deve tenere conto del livello di chi ascolta, in modo che la predicazione stessa cresca in proporzione della crescita di chi lo ascolta” (Comm. Gb. XVII, XXVI, 38).

Non manca, a questo punto, l’esempio – negativo – di un modo erroneo di introdurre alla sessualità: “L’ideologia dell’emancipazione impedisce a questi sedicenti esperti di considerare il livello di maturità dei destinatari di tali corsi, dimenticando che i giovani andrebbero introdotti al mistero stupendo dell’unione fra l’uomo e la donna solo gradualmente e con grande discrezione” (p. 154). La legge della gradualità implica sempre il primato della persona, sugli schemi e sulle ideologie. In questo senso, le domande di un educatore non sono che passi nell’amore, vale a dire nel permettere che avvenga l’incontro che salva.

La gradualità non chiude gli occhi di fronte alla tragicità della situazione, ma si sa in cammino. “Dove si rifugia la bellezza del mondo?” si domanda Gregorio in un’omelia del 593, che Attanasio riprende in conclusione del suo volume. “Dovunque vediamo lutti, dovunque sentiamo gemiti. Distrutte le città, abbattute le fortezze, devastate le campagne, la terra è stata ridotta a un deserto. Non è rimasto nessuno a coltivare i campi, quasi nessuno abita nelle città; tuttavia anche questi piccoli resti del genere umano sono continuamente colpiti ogni giorno. […] Vediamo alcuni deportati come schiavi, alcuni mutilati, altri uccisi. Cosa ci può dunque attirare in questa vita, o fratelli miei? Se ancora amiamo un tale mondo, vuol dire che non amiamo più le gioie, ma i dolori. Ma noi vediamo come è ridotta Roma stessa, che un tempo sembrava la dominatrice del mondo. Schiacciata in tanti modi da immensi dolori, dalla desolazione dei cittadini, dall’attacco dei nemici, dai continui crolli…” (Om. Ez. II, VI, 22).

Gregorio Magno ci insegna che la rinascita è nell’affidamento, ovvero “nell’unità tra preghiera e azione” (191), perché, anche se può sembrare sin troppo banale, il mondo non lo salviamo noi, ma si salva attraverso il nostro abbandono totale. Agiamo per quel che contempliamo.

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