Sono innumerevoli i segni di malessere di fronte al nostro vivere e la distrazione sembra oggi l’unica reazione possibile, di fatto la più diffusa. Lo smarrimento esistenziale, indebolendo la capacità di accogliere il reale come proposta, come occasione di interazione, pare incrementare una sorta di dimissione dalla vita, un indolente e assuefatto arretramento di fronte alle provocazioni e alle urgenze della realtà. Fenomeni come la denatalità a livelli allarmanti o il consistente numero di giovani sospesi nel limbo dell’inerzia (i cosiddetti Neet fra i 20 e i 30 anni che né studiano, né lavorano), sono solo due esempi fra tanti segnali di decadenza di una società inerte e frammentata, sempre meno adeguata ad affrontare le drammatiche emergenze del tempo attuale.
Se poi la visuale si allarga al contesto globale, la debolezza dell’Occidente in questi giorni si misura in tutta la sua portata nella vicenda dell’Afganistan riconquistato dai talebani dopo vent’anni di sforzi di “democratizzazione” del paese. E potrebbe essere proprio questa drammatica questione a indurci a spezzare i nostri labirinti mentali, ad accantonare analisi distanti dalla complessità e dalle responsabilità sempre scansate e disattese, persino misconosciute.
“L’abitudine a non affacciarsi sull’orlo dell’abisso rende irragionevoli” ha scritto Domenico Quirico (La Stampa, 9 settembre) indicando proprio l’astrattezza di intenti e parole che suonano insensate, distanti dall’insieme dei fatti reali e dalle ragioni sottostanti. Alla base dell’irragionevolezza c’è lo stesso annebbiamento che induce a sorvolare sulle questioni inquietanti, a preferire la rassegnazione che preclude domande e affievolisce l’urto delle contraddizioni.
Nel caso della tragedia afgana lo stesso ottundimento impedisce di considerare che la matrice del terrorismo è religiosa e che il cosiddetto scontro di civiltà non è causato innanzitutto da fattori economici e politici: i kamikaze fanno stragi in nome di Allah e della sharia proclamando la loro superiorità nella sublimazione della morte. L’affermazione “Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita” è una provocazione che l’Occidente non ha finora mai raccolto. Sembra questa la sfida decisiva, quella che potrebbe scuotere da un’alienazione sempre meno consapevole dei tanti problemi che soffocano la vita personale e sociale.
Ma chi o cosa può guarire la disaffezione al vivere e spingerci sull’abisso del nostro cuore dimentico di se stesso? Come squarciare l’illusorio sentimento di un’autosufficienza che preclude al nostro vivere ogni apertura alla trascendenza che sola può schiudere un orizzonte di speranza anche nelle situazioni più tragiche? Il grande teologo Romano Guardini nel suo saggio Accettare se stessi affronta il dramma della lontananza dell’uomo da se stesso e il nichilismo che ne deriva mettendo a fuoco le sue domande ineludibili che la modernità ha censurato e che trovano risposta solo in riferimento a Dio.
Si tratta di interrogativi esistenziali elementari e decisivi: “Perché io sono quello che sono? …perché semplicemente sono piuttosto che non essere?”. “Agli albori della filosofia occidentale – riprende Guardini – emerge continuamente l’interrogativo circa l’archè, il principio di tutte le cose, e vi si danno risposte varie e profonde. Ma ne esiste una sola che vi risponda davvero: rendersi conto religiosamente che il mio principio sta in Dio. Per meglio dire: nella volontà di Dio rivolta a me, che io sia e che sia quello che sono”.
In questa consapevolezza di appartenenza radicale al Mistero, origine di tutto, l’essere umano, pur nel proprio limite, scopre il senso e il valore del proprio esistere. “È bene riaccertarsi sempre di questa Magna charta dell’esistenza” suggerisce il pensatore descrivendo l’uomo alla sua origine che, nel suo essere creatura di Dio, riconosce la propria libertà e la strada al compimento della propria umanità e del proprio creativo impegno per le sorti del mondo.
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