Guerrafesta di Flaminia Colella (Carta Canta, 2022) è la terza raccolta della giovane poetessa. Un volume intenso e legato nel profondo ad alcuni luoghi precisi – cui rinviano anche le fotografie di Rino Bianchi, che accompagnano i versi –: la Marsica abruzzese, Roma, i castelli romani con i loro laghi e i profili dei monti. Un libro, dunque, con un’ambientazione precisa e particolare che apre, tuttavia, ad una voce universale cui ognuno può prestare ascolto.



Guerrafesta, infatti, si presenta come un magnete. Agisce così, da subito. A partire dal neologismo costituito dal titolo, indice di una consapevolezza vissuta, attraversata, amata. Guerra e festa come due poli che si attraggono a vicenda: ogni pagina un pendolo all’interno di una dinamica dell’opposizione polare che sostanzia la vita e l’esistenza tutta. In questo senso, si potrebbe dire, Flaminia Colella prende, guarda e si carica sulle spalle una grande tradizione, che affonda le sue radici fin nella Grecia antica, in quel polemos eracliteo che è padre e madre di tutte le cose. Ma la poetessa non si ferma ad una tragica presa d’atto. Tutta la raccolta, infatti, apre continuamente squarci di visione che invitano a costruire, comporre, generare.



Guerrafesta attrae. E muove ad un sorriso che non nega ma abbraccia la totalità del reale, con le sue luci e le sue ombre. Invita al movimento, al combattimento, perché esiste una gloria, all’orizzonte, una festa: “E poi sorriderò perché so che la vedrete/ tra le macchine e le nebbie/ anche voi la strada illuminata/[…] E sorriderò perché saprete riconoscerla/[…] sul sentiero che procede laterale/ e sarà un attimo […]”. Un orizzonte di speranza e di gloria pervade i componimenti. Basterebbe questo per dire della bellezza dell’opera. Un’opera inattuale e al contempo – meraviglia del paradosso, e forse proprio perché tale – potentemente attuale. Voce dolce e graffiante in grado di parlare ai lettori d’oggi. Molti sono i versi – con la loro musicalità e ritmo – che sono in grado di squarciare e aprire una ferita generante nel cuore e nella mente dei lettori, risvegliando un affetto per la realtà. Una realtà da riguardare con l’atteggiamento del rabdomante, che vaga, danza e cerca non possedendo una certezza, ma sentendone vibrante la promessa: “Andiamo verso la stazione c’è qualcuno/ che vuole conoscerti e non sa il tuo/ nome. […] Lì avverrà tutto quello che temi/ tutte le sorprese e le paure insieme […]”.



Emerge chiara la promessa per chi accetta di mettersi in viaggio. La promessa di un incontro, perché il viaggio eroico cui siamo chiamati è personale, ma non solitario e individualistico. Numerosi sono i componimenti in cui l’autrice si rivolge ad un “tu”, volutamente vago e che si presta ad assumere – di lettore in lettore – variegate e tutte possibili forme. Un “tu”, un’alterità che ridesta e aiuta a mettere a fuoco lo scopo della guerra, della festa: intravedere il proprio vero volto, il senso primo e ultimo che tutto sostiene, l’origine e la meta insieme: “Ecco, dici, siedo e mi concentro/ eccomi a te che sei quest’ora/ e chiedi tutto di me con attenzione:/[…]. Eccomi, se mi conosco è per amore /di un viaggio o sottrazione/da tutto che non sia il mio vero volto […]”.

Ecco l’essenziale. Ciò per cui vale la battaglia di quest’opera: per niente di meno di questo: il senso della vita. E, nuovamente, l’attuale-inattuale. Dove e quando cercare, infatti? Flaminia Colella traccia un sentiero, che il lettore è chiamato a ripercorrere nella lettura e nel proprio vissuto. Ora è il tempo. Ora è il tempo del sorriso. Il tempo della guerra. Il tempo della festa. È tempo. Non prima, non dopo. Ora “il sole delle alpi ti brucia la faccia” e “(…) il senso della vita/ (…) passeggia sui campi/ non lontano”. Ora è il tempo del presente, del donato, del regalo moltiplicato: “Anima tua, canta!”.

Sembrano dirci questo, del resto, le figure che abitano Guerrafesta. Il senso della vita non era ieri, non sarà domani. È già qui: qualcuno già ti aspetta. Ti cerca, vallo a cercare, custodiscilo. Questo, forse, dice e fa il gioielliere nel suo quotidiano eppure abissale negozio; il rabdomante alla ricerca dell’acqua; il chiromante lungo la strada con i suoi orpelli da vendere. Cercano – questi e altri personaggi – desiderano, non stanno fermi. Sono in movimento. Sono, essi stessi, movimento. E potrebbero, forse, non esserlo? Sono in fieri, guerrieri feriti ma non disperati; segnati da una lacerazione, sì, dall’eterno ritorno del chiaro e dello scuro, ma non rassegnati.

A loro modo tutti i protagonisti, infatti, splendono, sia pure all’alba e al crepuscolo. In essi alberga come un presentimento, un sospetto, un avvertimento. L’attesa di un’alba e di una notte e ancora così, per sempre: “Ma guardare di nascosto/ le finestre, seguire la strada per il mare/ ci è concesso:/ spostare i pensieri così poco/ tornare a quel vortice splendente”.

Non per nulla di meno, appare dirci meravigliosamente Colella con questa raccolta. A noi il compito di ascoltarne la voce, il grido e il silenzio che invitano ad uno sguardo ampio, che porta “più in là”, tra la vertigine del volo di un falco e le profondità di un lago. Oscillando tra la guerra e la festa, i versi di Flaminia Colella ci rammentano che sempre “ci fa ancora visita la gioia”, l’insperato, l’impossibile: “Si vive per vivere così/ se vi è possibile:/ non cercate la morte/ solo l’incredibile”.

Non sarà sfuggito e non sfuggirà al lettore – anche da questi brevi assaggi – la musicalità e il ritmo delle poesie della raccolta, l’amore per la parola. Heidegger scriveva che “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono”. Il linguaggio è cosa seria, è casa, è dimora dell’esistenza umana. Guerrafesta intuisce e canta anche di questo, distinguendo i “parolieri” dimentichi del cielo dai guerrieri e danzatori della parola. Mostrando consapevolezza dello strumento pericoloso e bellissimo che sono le parole, in un mondo in cui il rischio è una sovrapproduzione di discorsi e vaniloquii. Flaminia Colella ne è consapevole. E lo canta. Le parole fanno abitare il mondo, ci permettono di non abbandonarlo, di amarlo. Vanno pesate, pensate, ruminate e, alla fine, rivelate: “Non vi lasceremo senza fiato/ senza aver detto o aver tentato/ almeno una particella del creato”.

Non resta che un profondo senso di gratitudine.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI