Alla base del grande disordine politico di questi anni vi è una questione capitale, che pochi affrontano esplicitamente, ma che ha un fondamento antico: dove deve risiedere la sovranità? Qual è la dimensione giusta dell’organizzazione politica? Che comunità deve poter decidere sul suo destino? Nella tradizione politica non solo occidentale vi sono due risposte principali.



Una sostiene che la sola comunità politica giusta, la sola che possa assicurare pace e giustizia, dev’essere universale, abbracciare tutti gli uomini. Non importa a questo livello chi comandi in essa, se un sovrano “per grazia di Dio”, un leader religioso, un governo in qualche modo espresso dal popolo. Quel che conta è l’universalismo, condiviso dai grandi imperi: i romani e i cinesi, gli egizi e la umma islamica, di recente l’impero inglese, quello asburgico, quello ottomano, russo e poi sovietico, il Terzo Reich (impero) dei nazisti. Oggi questa tendenza si presenta sotto forma di organizzazioni “sovranazionali” come l’Onu ma anche l’Unione Europea e gode della simpatia di buona parte dell’élite intellettuale (almeno da Kant che la teorizzò esplicitamente) e anche delle forze politiche maggioritarie fino a qualche tempo fa e di quelle economiche, che vedono nella “globalizzazione” un’opportunità.



L’altra risposta è quella degli Stati nazionali, che si riconoscono in una continuità storica, culturale, spesso linguistica e etnica (ma non sempre, come non per esempio gli Usa e la Svizzera). Gli Stati nazionali riconoscono, anzi rivendicano dei confini, non vogliono universalizzarsi, anche se magari hanno pretese su territori irredenti. Fino a qualche anno fa questa sembrava una posizione residuale, oggi è abbracciata dai leader di grandissimi paesi, come gli Usa, il Brasile, l’India, il Giappone, la Russia, l’Australia oltre che in Europa da quei movimenti cospicui e in crescita che vengono chiamati “sovranisti”.



Le ragioni dell’universalismo sono chiare e semplici: l’impero mantiene la pace al suo interno e può pretendere di  distribuire razionalmente le risorse, che si organizzi per via di una  programmazione centralizzata o dando via libera alle forze del mercato su un territorio più ampio degli Stati nazionali. Quali siano le ragioni dell’organizzazione nazionale di solito nel dibattito politico attuale non si dice, perché i “sovranisti” vengono presentati come rozzi egoisti privi di pensiero e magari come “fascisti”. Ma queste ragioni ci sono, hanno forza e  tradizioni democratiche, come possiamo leggere in un recente, bellissimo libro del filosofo della politica israeliano Yoram Hazony, appena tradotto da Guerini, con un titolo provocatorio: Le virtù del nazionalismo.

Hazony ritiene che in realtà le organizzazioni politiche siano tre: quella tribale, quella nazionale, quella imperiale o universale. Il punto di partenza del ragionamento è che non è vero che ciascun essere umano è un soggetto isolato, legato solo agli obblighi che assume per libero consenso. Al contrario ognuno di noi nasce in una famiglia, in una cultura, in un luogo ed è legato ad essi da legami che precedono la sua identità, disposto a fare sacrifici per loro al di là di ogni logica di scambio. La famiglia è dunque l’organizzazione primaria della società e la tribù è semplicemente un gruppo di famiglie che si sentono legate fra loro, tanto che è ovvia l’estensione dei vincoli e degli obblighi sentiti per la nostra famiglia all’intera tribù. Si tratta dunque di un’organizzazione molto motivata, che però facilmente cade nell’ingiustizia interna, perché la sua struttura è naturalmente basata sull’autorità, e nella guerra esterna, perché non vi è una giustizia intertribale.

La nazione si sviluppa quando alcune tribù avvertono vincoli storici, religiosi, di costume, lingua, religione, e rinunciano alla loro indipendenza per essere collettivamente più forti verso l’esterno, più in pace fra loro. Il legame è avvertito perché i membri della nazione si riconoscono simili e sono disposti a trovare mediazioni per risolvere i loro conflitti. Così nasce la possibilità di giustizia. L’impero non ha vincoli né di località né di similarità, si presenta come tutore della pace ma non può accettare di avere concorrenza o anche solo disobbedienza all’esterno come all’interno. Dunque è destinato ad essere sempre coinvolto in conflitti esterni e a cercare di abbattere le differenze fra le nazioni che lo compongono, spesso di fatto privilegiandone una, quella fondatrice o egemone.

La nazione è dunque il miglior compromesso fra l’esigenza di garantire la pace e la possibilità di mantenere identità, differenze culturali, attaccamento religioso e culturale. È lo spazio della libertà contro la mancanza di giustizia delle tribù e l’oppressione uniformatrice degli imperi. Noi oggi siamo in una fase in cui gli imperi si stanno riformando – per esempio l’Unione Europea – e accusano le nazioni di essere colpevoli delle peggiori nequizie del secolo scorso. Ma i genocidi commessi da nazisti e comunisti erano il frutto della loro vocazione imperiale, non di essere basati su popolazioni nazionali.

Queste in breve le tesi di Hazony, molto polemiche nei confronti del consenso culturale europeo attuale, e insieme molto illuminanti, capaci di chiarire le ragioni del crescente consenso “sovranista” nel mondo. Sarà interessante discuterle nelle presentazioni che l’autore farà nei prossimi giorni in varie città italiane.

Il volume di Yoram Hazony Le virtù del nazionalismo sarà presentato oggi, lunedì 9 dicembre, ore 18.30, presso il Centro Internazionale di Brera a Milano, via M. Formentini 10. Intervengono: Vittorio Robiati Bendaud, Giulio Sapelli, Ugo Volli. Modera Sergio Scalpelli. Sarà presente l’autore.