La carriera di romanziere storico inizia per Hilary Mantel, morta a 70 anni lo scorso 22 settembre, molto lontano dalla Gran Bretagna, nel 1977, sotto una veranda di un bungalow in Botswana; di giorno insegna (non legge, nella quale è laureata, ma teatro) e la sera scrive, sempre in compagnia del misterioso dolore cronico (autodiagnosticato anni dopo come endometriosi ma mai risolto nemmeno con la radicale rimozione di utero e ovaie), scrive della Rivoluzione francese, un interesse già emerso con un O level, esame da lei scelto nel percorso preuniversitario inglese, e ne fa il suo primo romanzo storico, rigettato da qualsiasi editore fino al 1992. Un inizio poco incoraggiante per una giovane inglese di 25 anni, considerando che prima di lasciare la madrepatria Mantel dedica tre anni a raccogliere materiali relativi all’evento che cambiò la storia europea, ne fa un libro, ma nessuno lo vuole.
Il contrasto con la reputazione conquistata negli anni a seguire è impressionante; è stata due volte vincitrice del Booker Prize (unica donna) con Wolf Hall e Bring Up the Bodies (2009 e 2012), i primi due volumi della trilogia dedicate alla riabilitazione storica di Thomas Cromwell, l’uomo che traghettò gli inglesi fuori dal cattolicesimo di una Europa spagnola e “papista” nella nuova realtà di una (molto) futura Great Britain anglicana, con un protestantesimo saldamente ancorato alle sorti della monarchia, imperiale e dominatrice dei mari: sempre per la trilogia ha vinto il Walter Scott Prize per il romanzo storico, che è come prendere il Nobel del romanzo storico in Scozia (per quanto Mantel confessi di non riuscire a leggere i romanzi di Sir Walter Scott, oggi, ed è difficile darle torto, con forse la sola eccezione di talune parti di Waverley) ed infine la popolarità si è fatta globale con le sue opere tradotte in cinquanta lingue, gli adattamenti televisivi e teatrali, ma anche e soprattutto nel mondo anglofono con i suoi interventi acuti e anticonformisti, almeno per una certa parte dell’opinione pubblica inglese.
Strenua oppositrice della Brexit, ha anche preannunciato la fine della monarchia (William sarebbe l’ultimo monarca una volta scomparso il padre Carlo III) in quanto i membri della casa reale (con la sola e ultima eccezione, a parere della Mantel, di Elisabetta II) non sono figure politiche, atte a svolgere quelle funzioni di rappresentanza che competono ai membri della casa reale, ma solo delle celebrità. La loro funzione pubblica si sarebbe esaurita. Certo non una conservatrice, l’autrice ha però ricevuto il titolo di Dama nel 2015, l’equivalente del cavalierato, che ne ha ufficialmente sancito i meriti letterari per il Paese.
Tutto questo è la superficie della vita della Mantel, ma se è pur vero che i Tudors esercitano un fascino indiscutibile ed eterno sull’immaginario collettivo inglese (e non solo), resta tuttavia da spiegare il segreto, se ve ne è uno, di una scrittura psicologicamente finissima, carica di tensione, asciutta e fantasiosa alla bisogna, che si azzardi a mettere al centro di tre volumi di 700 pagine l’uno non il grande Enrico VIII, e l’ancora più celeberrima Elisabetta I, ma un personaggio che lavorò a lungo, prima di perdere la testa, nel retrobottega delle reazioni politiche nazionali e sovranazionali, e che era stato consegnato alla storia come personaggio se non viscido, perlomeno non gradevole. La ragione della scelta di Cromwell la diede Mantel stessa, affermando che “Aveva una visione complessiva ma non tralasciava i dettagli, capacità che manca ai politici oggi. Era un politico creativo che trovava soluzioni originali. E sapeva scegliere la sua squadra”. Narrare la storia è un atto politico dell’oggi.
In questo suo scegliere non il grande della storia, Mantel segue la traccia ancora ottocentesca del romanzo storico, che non si fa con i grandi riconosciuti dai libri, ma se ne discosta anche; Scott creava personaggi fittizi, e Manzoni si accodò con Renzo e Lucia, e questo lasciò ai due romanzieri molta libertà di azione nell’immaginare non solo le vicende, ma le personalità. L’operazione della Mantel è stata molto più complessa; Thomas Cromwell fa parte della storia, l’ha fatta in un ruolo affatto periferico, e ne esiste una narrazione storica. Non si può inventarlo, bisogna “narrarlo”; come narrarlo però fedelmente ma personalmente, al punto di assumersi nella forma del romanzo quell’atto che è proprio dello storico, la rivisitazione di fonti, documenti, fatti, opinioni e altro che porti a vedere il tal fatto o personaggio storico in una nuova luce, che lo illumini di una verità che era sua, ma che la patina delle interpretazioni aveva offuscato o persino cancellato? Come si fa a scrivere un romanzo accattivante, dove rimanga intatto il gusto della scoperta non solo dei personaggi, dell’ambientazione, dei paesaggi, ma della storia quando la storia stessa è nota?
Enrico VIII cade da cavallo e si ferisce gravemente, si teme per la sua vita, Thomas Cromwell teme di aver puntato sul cavallo sbagliato, e l’irruzione del duca di Norfolk, sotto shock per la notizia (poi rivelatasi falsa) della morte del sovrano, nella camera di Anna Bolena, è così violenta che lo spavento fa abortire la giovane donna solo a una settimana dalla morte di Caterina di Aragona. Un colpo di scena magnifico, in cui la narrazione dl romanziere è fondamentale nella sua ricchezza e bellezza per far sì che il lettore sappia ma dimentichi (Coleridge la chiamava fede poetica, anche se la riferiva al meraviglioso) che è presto per la morte del sovrano, in questo tratto della storia inglese così noto, così nazionale, e dove si sa tutto delle moglie di Enrico VIII, della sterilità di Caterina, della promessa di bellezza di Anna Bolena, e anche del suo aborto. Appassionarsi al romanzo e leggere la storia già nota come nuova non è l’esito della fedeltà al dato storico, pur presente e rigorosa, e certo non potrebbe essere l’equivalente di una voce narrativa ottocentesca, alla Manzoni, che accompagna il lettore nella visione di un mondo alla fine illuminato.
Quello della Mantel, invece, è un mondo dove il bimbo muore perché “la vecchia regina è intervenuta e ha liberato il bimbo di Anna, cosicché esso è dato alla luce prematuro e non più grande di un topo”. Non è crudeltà ma espressione non sentimentale di un dolore filtrato in modo impersonale da una coscienza lucida che, della operazione chirurgica di emergenza che subì, ebbe a dire che le “fece avere confiscata la mia fertilità e le mie interiora riorganizzate”. Altra e non meno rilevante conseguenza dell’operazione, che non fu affatto risolutiva della sua condizione medica anche se evidentemente radicale e invasiva, fu dover accettare l’unica professione a lei aperta perché compatibile con le sue condizioni fisiche; scrivere, e scrivere ancora. La prima conseguenza fu forse una perdita, di cui Mantel si addolorò perché le fu tolta la possibilità di scegliere di essere mamma, e più tardi, aggiunse, nonna. La seconda conseguenza fu una nascita; se non le era stato possibile divenire una storica in senso canonico, allora la storia, come tutti gli storici, l’avrebbe narrata, cioè fatta nascere dalle carte, i dipinti e i manufatti lasciateci dal tempo. Le voci dei morti ci parlano.
Nell’evento drammaticamente importante della caduta da cavallo di un sovrano che diverrà quasi ipocondriaco ruba la scena una regina morta che non ha avuto figli e non permette che chi l’ha soppiantata ne abbia uno; quello che c’è in gioco qui non è la rivisitazione di un’epoca, ma qualcosa che attiene ad un’area dell’esperienza umana, che Mantel conosceva bene, quella del dolore, e non solo quello fisico, se lei stessa ebbe a dire che, se le fosse chiesto di dare un colore al dolore, avrebbe scelto “un cremisi appassito, slavato dalla pioggia, come sangue rappreso e secco”.
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