“Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che è meglio non farsi” (Serotonina).
Fin dalla pubblicazione di Le particelle elementari (Bompiani, 1999) – il romanzo best-seller che già da vent’anni ne ha consacrato la fama internazionale – Michel Houellebecq ha dimostrato di non voler risparmiare nulla ai personaggi che nascono dalla sua penna: li manda tra noi con l’atteggiamento di un padre disamorato, sacrificandoli freddamente sull’altare del nostro tempo, offrendoli spogli al giudizio – quasi al disgusto – del suo pubblico. Prostrati, volgari, infelici, gli uomini e le donne che attraversano le sue storie sono degradati da tutti quei mali che l’autore identifica come le ferite della società contemporanea. Ma è proprio in virtù di questo loro carattere estremo e disinibito che gli anti-eroi di Houellebecq si prestano perfettamente a illuminare la frizione del cuore umano nel suo attrito con gli impulsi contraddittori della nostra società. È il caso di Florent-Claude Labrouste, protagonista del suo ultimo romanzo, Serotonina (La nave di Teseo, 2019), che da qualche mese affolla gli scaffali delle librerie di tutta Italia.
Labrouste è un funzionario del ministero francese dell’Agricoltura: stanco del girotondo di relazioni sessuali con ragazze di cui a stento ricorda il volto, frustrato da un lavoro che tradisce costantemente i suoi ideali, all’avvicinarsi della mezz’età, si scopre abitato da “una tristezza tranquilla, stabilizzata, non suscettibile di aumento ma neanche di diminuzione”: “ormai avevo quarantasei anni, non ero mai stato capace di controllare la mia vita, in poche parole mi sembrava molto probabile che la seconda parte della mia esistenza fosse destinata a essere, come la prima, solo un’estenuata e dolorosa prostrazione”.
“Provavo una netta riluttanza all’idea di farmi un bagno o una doccia, in realtà mi sarebbe piaciuto non avere un corpo, l’idea di avere un corpo, di dovergli dedicare attenzioni e cure mi era sempre più insopportabile”. Perduto ogni interesse per sé e per gli altri, a Labrouste non resta che coprire le crepe, soffocare ogni dolore, per intraprendere silenziosamente un graduale percorso di autodistruzione. Decide così di cancellare le tracce della propria vita sociale, abbandonando di nascosto il trilocale che divideva con l’ultima delle sue amanti per rintanarsi nella transitorietà di una stanza d’albergo, aggrappandosi a quel paradiso artificiale che gli offrirà la serotonina: quella che dà il titolo al romanzo è una sostanza che “non crea né trasforma; interpreta. Ciò che era definitivo lo rende passeggero; ciò che era ineluttabile, lo rende contingente. Fornisce una nuova interpretazione della vita – meno ricca, più artificiale, e improntata a una certa rigidità. Non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo. La morte, tuttavia, finisce per imporsi, l’armatura molecolare si incrina, il processo di disfacimento riprende il suo corso”.
Il tempo accompagna le opere di Houellebecq come una lieve inclinazione, una lenta e inesorabile vertigine: è il brusio di fondo dove si perdono i frammenti delle storie particolari e affondano le civiltà; lo sgretolarsi di ogni possibile impulso alla costruzione di un percorso. Un tempo scolorito, stanco, che vede oscillare il suo pendolo tra i fallimenti del passato e l’impossibilità di un’azione presente: “ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé, cosa mai poteva propormi la socialdemocrazia, evidentemente niente, solo una perpetuazione della mancanza, un invito all’oblio”.
Ma ancor più dell’azione erosiva del tempo, è la solitudine che torna costantemente a scarnificare l’esistenza di Labrouste: “ero semplicemente solo, letteralmente solo, e non ricavavo alcun piacere dalla mia solitudine, né dal libero funzionamento della mia mente”. La stessa città di Parigi, “come tutte le città, era fatta per produrre solitudine”. E quando quell’uomo comincia ad avvertire l’esigenza “di fare un bilancio, di convincersi, nel momento estremo, di aver vissuto”, il suo immaginario “mini-cerimoniale” non può contare che poche donne, di alcune delle quali non ricorda nemmeno il nome. Solo due volti, quelli dell’amore, si sottraggono a questa indifferenza rompendo il muro della sua solitudine: si tratta di Kate – “L’ultima foto che ho di Kate dev’essere da qualche parte nel mio computer, ma non ho bisogno di accenderlo per ricordarmene, mi basta chiudere gli occhi. […] Kate si volta verso di me e sorride, devo averle gridato di girarsi per poterle scattare la foto, mi guarda e il suo sguardo è pieno di amore, ma anche di indulgenza e di tristezza perché probabilmente ha già capito che la tradirò e che la nostra storia finirà” – e, soprattutto, di Camille: “Conservo un ricordo strano di quel periodo, non posso che paragonarlo a quei momenti rari che si creano solo quando si è estremamente sereni e felici, e si esita a sprofondare nel sonno, trattenendosi all’ultimo secondo con la consapevolezza che il sonno che seguirà sarà profondo, delizioso e ristoratore”.
Quella di Camille, in particolare, si manifesta come una presenza nuova, capace di scoprire nella quotidianità delle cose un volto diverso e tuttavia più familiare, come emerge chiaramente nel racconto del suo arrivo in casa: “Fin lì ci avevo abitato come in un albergo, in un bell’albergo, in un hotel de charme riuscito, ma fu solo dopo l’arrivo di Camille che ebbi l’impressione che si trattasse davvero della mia casa – e solo perché era la sua”. Una donna seria e allegra al contempo, il cui impegno con la vita, e innanzitutto col loro rapporto, è tale da lasciare senza fiato Labrouste, che invece sul serio aveva preso ben poche cose: “La stessa serietà che aveva negli studi, Camille la manifestava nel suo rapporto con me. Non voglio dire che fosse austera o compassata, anzi era molto allegra, rideva per un nonnulla, e per certi versi era anche rimasta stranamente infantile, a volte aveva delle crisi da Kinder Bueno, cose del genere. Ma eravamo in coppia, era una faccenda seria, era addirittura la faccenda più seria della sua vita, e io restavo sconvolto, fino a trovarmi letteralmente senza fiato, ogni volta che leggevo nello sguardo che posava su di me la gravità, la profondità del suo impegno”.
Ma all’enormità di un simile respiro si contrappone, ancora una volta, la meschinità di uno sguardo affossato, incapace di cogliere la portata del reale. È per un abbaglio, infatti, “in un modo spaventosamente stupido”, che Labrouste tradisce ancora, soffocando quella promessa di felicità scoperta con Camille.
Perduta ogni speranza, appare negata la possibilità stessa della vita: “Privo com’ero di persone care, per quel che mi riguardava avevo la sensazione di accettare sempre più facilmente l’idea della morte; certo, mi sarebbe piaciuto essere felice, accedere a una comunità felice, tutti gli umani lo vogliono, ma a quel punto si trattava di una cosa davvero impensabile”.
Tutto è compiuto: senza rumore, nell’assurdità del silenzio. Ma ecco che, con un moto improvviso, a poche righe dalla conclusione, Houellebecq sembra deciso a strappare la sua creatura alla mediocrità, donandole l’attimo della coscienza tragica: le pagine finali del romanzo rappresentano così per il protagonista il tempo dell’ultimo sguardo, di un estremo – paradossale – riconoscimento di quei segni, il mistero di quei due amori che avevano potuto ridestargli il cuore. Ed è proprio dall’ultimo pensiero di Labrouste, il quale fino a poco prima aveva accusato l’insufficienza del creato – “Dio è uno sceneggiatore mediocre […], nella sua creazione non c’è niente che non abbia il segno dell’approssimazione e dell’insuccesso, quando non quello della cattiveria pura e semplice” – è dalla sua ultima voce, quasi un testamento, che siamo chiamati a rinnovare il nostro sguardo sulla realtà:
“Abbiamo forse ceduto a illusioni di libertà individuale, di vita aperta, di infinità dei possibili? È probabile, quelle idee erano nello spirito del tempo; non le abbiamo formalizzate, ce ne mancava l’inclinazione; ci siamo limitati a conformarci a esse, a lasciarcene distruggere; e poi, per molto tempo, a soffrirne. […] E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto”.