Tutta la tradizione della critica letteraria, almeno dalla prima metà del Novecento ad oggi, non ha mai resistito alla tentazione di associare ciascun autore classico a uno dei suoi personaggi, come se attivare quel processo identificativo servisse ad avvicinare alla comprensione.
Con i dovuti distinguo e le giuste accortezze metodologiche, questa operazione è forse più facile col teatro e la narrativa. Come fecero, tra gli altri, Van Gogh e Leonardo nella pittura, anche lo scrittore ha bisogno di lasciare una traccia, di mettere il suo sguardo sulla tavolozza di colori con cui descrive un intreccio.
Così si è detto che il Virgilio di Dante ha qualcosa dei princìpi che guidano l’etica dantesca molto più che riflettere la cultura latina; così si è detto che Falstaff è il lato più nerboruto, gaudente e brillante della personalità scespiriana; così Jacopo Ortis è la parte estremamente tragica del pessimismo politico foscoliano. Tutto bene: a patto di non pretendere parallelismi stretti fino alle rette coincidenti (il più anomalo caso di rette parallele della geometria euclidea).
Ci sono autori che hanno una produzione di gran lunga più varia dei personaggi che li identificano presso il pubblico – si pensi, nel poliziesco, al duo Maigret-Simenon, lo sbirro all’antica e il narratore vitale che ha scritto classici dimenticati rispetto all’enorme successo dei libri gialli. E ci sono personaggi che godono poi di vita propria, sopravvivono al loro autore: Sherlock Holmes, per restare al crime, è stato riscritto, reinterpretato e riutilizzato da decine di penne, a volte mediocri; Falstaff, ad esempio, arriva al pubblico italiano più grazie a Verdi che a Shakespeare stesso.
Una peculiare saldatura tra narratore e personaggio la vediamo probabilmente nel rapporto che Victor Hugo intesse col celeberrimo protagonista dei suoi ancor più celebri Miserabili (1862): questa saldatura non è identità, non è omologazione, non è coazione a ripetere. Tra lo scrittore francese e il suo galeotto sussiste forse un rapporto di complementarietà/distinzione: hanno l’uno bisogno dell’altro. Dove l’uno non arriva, inizia il suo secondo a tessere il filo e viceversa, in un gioco di consonanze che proiettano sul titanico e forzuto ex potatore e condannato ai lavori forzati un po’ della morale e della politica di Hugo, esattamente come Hugo si fa empaticamente carico di quell’anima salva che ha abbandonato il male e la violenza praticati fino ad accettare la più radicale e integrale forma di carità permanente.
Andiamo con ordine: Jean Valjean è un colosso burbero, che mette a punto in circostanze fortuite un lauto furto in casa di un vescovo.
Victor Hugo nasce cattolico, ma poi in vita s’avvicina al libertinismo e all’esoterismo: è una vicinanza consolatoria, perché non scalfisce in fondo la sua fondamentale adesione di senso a un orizzonte tipicamente cristiano della sfera sociale ed esistenziale, ma attutisce una tribolata vita di lutti familiari (perde in vita quattro figli su cinque, scopre un drammatico tradimento coniugale in modo insospettabile).
Jean Valjean ha solo rudimentali concezioni politiche, anche se talvolta nel suo frasario appelli al contropotere pur emergono: contro i poteri reali; quello dei tenutari che sfruttano la servitù, ad esempio.
La visione di Hugo è articolata. Pur essendo un romantico, nella sua opera non mancano anticipazioni del naturalismo e del verismo, non è un socialista o un anarchico nel senso classico, ma irrobustisce poi in lui un pensiero volto alla redistribuzione economica e alla forma repubblicana delle istituzioni costituzionali.
Entrambi tuttavia hanno un rapporto tormentato con l’autorità, che, personificata, diviene un vero e proprio antagonista narrativo.
Per Valjean è l’ispettore Javert: un infaticabile uomo d’ordine in ascesa, legato a una idea prevalentemente retributiva della pena (“chi sbaglia paghi”). Fino al punto più alto nella sua redenzione: Javert sceglie il suicidio perché in un episodio del libro deve la vita a Valjean e criminale e ispettore non possono per lui dividere la stessa parte di barricata.
Per Hugo il bersaglio diventa progressivamente Napoleone III: prima ha un veloce colpo di fulmine per il rampante, forse gli ricorda la possibilità di declinare i valori rivoluzionari al tempo e al diritto della seconda metà del XIX secolo. Poi diviene oppositore: non gli piace la dittatura – neanche quella esaltata dalla tradizione plebiscitaria giacobina – e gli piace ancora di meno un impero in cui vede velleitarismi sul fronte estero, ma poca concretezza nella politica interna.
Hanno entrambi, il galeotto e lo scrittore, un amore infelice da proteggere con paternità e grazia: per il gigante (diventato) buono è la piccola Cosette, quasi figlia adottiva riscattata a una vita da schiava; per Hugo è l’unica figlia che gli sopravvive, destinata per decenni a un’esistenza manicomiale per l’esaurimento nervoso dovuto a una delusione sentimentale.
I Miserabili è un romanzo totalmente immerso nella sua storia e insieme gloriosamente antistorico: un atto di reazione, più che di rivoluzione, a un tempo di restaurazione – incurante dell’ingiustizia, della miseria umana e morale. L’energumeno ingentilito dalla speranza e dalla carità porta quel libro di peso a parlare all’uomo di domani.
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