In una fase in cui la distinzione tra buono e cattivo è sempre meno netta (ormai la qualifica di cattivo sembra riservata quasi soltanto a qualche personaggio di vecchi film in bianco e nero), può essere interessante ripercorrere la storia della parola “cattivo”, una storia in cui i fattori linguistici si intersecano coi fattori culturali.
“Cattivo” viene dal latino captivus, “prigioniero, catturato dal nemico (detto di persone o di oggetti)”. Si tratta di una derivazione dalla produttiva radice kap- “prendere”, attestata dall’India (sanscrito kapaṭī “manciata”) alla Grecia (kaptō “afferro”) alle lingue germaniche (gotico hafts “prigioniero”, tedesco heben “sollevare”, e una quantità di forme collegate antiche e moderne). Da kap- si forma in latino capere (in italiano capire “afferrare” con la mente), e poi in italiano capace, capiente, cassa (cap-sa), cattura (cap-tura), captare, cacciare (captiare) e tantissime forme in cui la radice non è più riconoscibile dal parlante perché le vicende fonetiche ne hanno oscurato l’aspetto primitivo (oc-cup-are, ac-cet-tare, parte-cip-e, muni-cip-io “il prendere parte alla vita pubblica”, concezione da con-cap-tio, eccetto da ex-cap-tus), e altre si sono via via aggiunte nel corso della storia linguistica anche attraverso l”apporto di forme dialettali (cascina da capsina, cattare) o letterarie (usu-cap-ione). Già la pura e semplice elencazione delle forme occuperebbe molto spazio.
Nel latino classico captivus ha sempre il significato di “prigioniero”. Il mutamento semantico si affaccia quando si diffonde l’idea dell’uomo schiavo di passioni e desideri: Seneca ci parla dell’uomo irae captivus “prigioniero dell’ira” e Ovidio di una mens captiva “pensiero dominato da sentimento d’amore”. Anche il cristianesimo procede in questa direzione, e propone l’immagine dell’uomo prigioniero del male e del demonio. In S. Paolo (II Timoteo 2, 26) si legge: “Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, … nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in sé stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri”.
Su questo concetto insisterà poi in modo particolare Agostino, descrivendo il peccatore come prigioniero di un seduttore che lo irretisce e bisognoso di un redentore per riottenere quella grazia a cui da sé non potrebbe arrivare. “Può essere redento solamente chi precedentemente è stato prigioniero del peccato” (Lettera 190), “Nessuno è nuovo per la nascita, ma vecchio per la colpa: uomo per opera del Creatore, prigioniero per opera dell’ingannatore, bisognoso di un redentore” (Sulle nozze e la concupiscenza, I).
Questo uso della parola da parte di Agostino e poi degli altri autori della letteratura cristiana segna le sorti della parola: in rumeno la parola scompare e nelle lingue della penisola iberica, che in grazia della loro posizione marginale si mantengono spesso più vicine a situazioni arcaiche, captivus viene proseguito col valore originario di “prigioniero” (spagnolo cautivo, portoghese cativo), e nelle altre zone romanze (Italia e Francia) captivus si avvia, già nei testi più antichi, verso una profonda trasformazione semantica.
Con una differenza importante però. Mentre in Italia cattivo assume il valore che ben conosciamo di “malvagio”, in Francia la continuazione chétif assume piuttosto il senso di “fragile” o “infelice”, che richiama non tanto una malignità personale, quanto una condizione non voluta di precarietà. Secondo alcuni illustri linguisti questo può essere anche dovuto alla maggiore propensione, oltralpe, a correnti di pensiero di tipo calvinista o giansenista, che propongono visioni dell’uomo in cui la predestinazione ha un peso maggiore. E in effetti “cattivo” in francese si dice oggi mauvais, dal latino tardo malefatius, nella cui seconda parte si riconosce appunto fatum “fato, destino”.
Un’ultima curiosità. Mentre nell’ambito di “buono, bontà” abbiamo a che fare con un lessico unitario (da bonus, italiano buono, francese bon, spagnolo bueno, rumeno bun), per l’espressione del suo opposto troviamo una serie di termini disparati (spagnolo malo, catalano dolent, francese mauvais, rumeno rău). La stessa cosa si osserva se si esce dall’ambito romanzo: ogni lingua ha un suo modo per esprimere l’idea di “cattivo, cattiveria”, e spesso si tratta di parole scollegate dal resto del vocabolario e senza etimologia certa: citiamo a caso inglese bad, tedesco schlecht o böse, svedese dålig, russo plochoj, polacco zly, lituano blogas e altri; in Grecia (kakós) e India (pāpas) si ricorre a termini provenienti dal linguaggio infantile.
Si direbbe quasi che lo stesso fomentatore di divisioni sia voluto intervenire di persona per frammentare e oscurare la porzione di lessico che lo riguarda. Ma questo non sarebbe un discorso da scienziato o da linguista. Il linguista si limiterà a concludere ricordando che nella lingua colta captivus nel senso originario è stato ripreso nella derivazione cattività “situazione di prigionia”.
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