Come affacciata sul deserto mondo, la voce – e distesa –, certa di certezza antica, indica le stelle, precisa, ne collega le “luciole” infinite in scrittura, racconto e insieme profezia; paziente, insegna, e presto ognuno crede di potervi leggere da sé i passi e le cadute, i cominciamenti e poi ogni ripresa; dipana le sue storie, che riaccadono inesorabili e uguali a irridere il sogno infinito dell’uomo, come la condanna incisa per sempre sul petto incatenato di Prometeo o lo sguardo spezzato di Francesco, ché “nemmeno Cristo dura in un uomo / diventato Cristo”.
È un’epica di perdita e rinascita, quella di Rosita Copioli in I fanciulli dietro alle porte, ultima raccolta dell’autrice riminese (“la più intensa e ricca poetessa italiana di oggi”, ha detto di lei Pietro Citati) edita da Vallecchi nella collana curata da Isabella Leardini. Un’epica scandita secondo ere dell’anima; la prima, in frattura dell’unità originale, in cui “sfolgora / ad Aquilone verso le tenebre / la stella dell’orgoglio in divisione”: paradosso sempre contemporaneo della libertà che dice il tuo nome, ti richiama dalla polvere, e insieme ti separa dalla tua stessa voce; voce dell’anima, dell’anima che è Dio: calco di quel Lucifero – portatore di luce – che quando “si protese verso il nulla fu l’inizio”, inizio del tempo e della storia.
Coordinata esatta di emersione dell’uomo nello spazio, lungo la quale, insieme, “tutte le cose si sciolgono, / e tutte disciolte come le / ali di fiamma fuggono via dalle mura del / mondo, e tutto nel vuoto si compie”; inizio d’attesa in cui il ciclico ripetersi delle cose, e senza memoria, è l’unica approssimazione all’eterno, al nascere di nuovo, che possiamo pur nobilmente offrirci.
Ripetersi di luce e di tenebre, di acqua e di fuoco – “incendio che continua a ardere / e non c’è che cenere, / cenere, cenere, cenere” – che invoca e grida a qualcosa che infine spezzi la misura. Come “la gemma schiude il cielo” o “il seme del fuoco / che nessuno più rastrella / al mattino”. Come una tempesta – “Uragano scaténati, riporta il tormento / della vita che risorge / da questo selvatico di vento di polvere di acqua / che non ne avrà mai abbastanza di risorgere, / di rigermogliare” – o come un amore.
E lo stesso supplizio di Prometeo, che porta o ri-porta il fuoco agli uomini, perde improvvisamente il senso di condanna e iterazione e si rivela sacrificio amoroso, offerta di sé e instancabile; più propriamente, sofferenza di redenzione e appunto rinascita, figura neppure velata del Cristo.
E qui, il titolo, estratto da una frase dello Zibaldone sui “desiderii [che] son penosissimi nella lor durata e nel loro corso (…)”. Citazione in qualche modo terrificante, che toglie ai discorsi appena fatti ogni sapore di vanità e li precipita in durezza. “E si dice p. ischerzo, ma non senza ragione di verità, che bisogna soddisfare ai desiderii de’ fanciulli per non trovargli morti dietro alle porte”. E chiunque può testimoniare di questa morte “per desiderio”, superbia inaccettabile e punita dal destino, o, forse peggio, della morte del desiderio. Di nuovo, Prometeo come il figlio.
L’impressione è che la voce narrante, col suo andamento quotidiano e come asciugandosi verso dopo verso, ci conduca a questo nodo “insolvibile”, alla “porta di Porpora” che separa il desiderio dalla propria soddisfazione, l’uomo, da un destino diverso; e lì, lei stessa “gemma [che] schiude il cielo” e “seme del fuoco” si offra infine – lei stessa soglia – a ricomposizione del mondo, “giardino dove passeggiavano upupa e pavone e falco / gli artigli crudeli e felici / senza misura”. Presunzione di santi e di poeti, e segreto che gli amanti da sempre sognano di trafugare. “(…) le ali rosse dell’aurora / mi hanno sollevato / alla tua bocca / ci apparteniamo / di notte di nuovo dolore e gioia / si trasfigura”.
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