Di che cosa vivono gli uomini? Di che cosa sono fatti? E che mestiere è mai quello di vivere? E poi ancora, e di conseguenza: che mestiere è mai quello del poeta? Ecco: in Frammenti di nobili cose (Passigli, 2023) Massimo Morasso abita con la sua poesia la casa del mondo e del mistero che lo sostiene e lo attraversa. E si mette a lavorare con gli occhi e la parola per farsi ancora queste domande. E per vedere se c’è una risposta, per lui e per noi.



Ma è solo poesia, roba innocua, o inutile, per qualcuno. Perché al mistero obbedisce, trattandolo per quello che è, abbracciandolo in frammenti di un pensiero giunto a una consapevolezza e maturità nuove dentro immagini che si sciolgono lentamente nelle cinque sezioni di cui il libro è composto.

E dunque, dice Morasso: “sono una nostalgia celeste/ ardentemente arresa al suo destino”. E ancora: “se fossimo… come gli angeli, abusassimo di luce/ nei grandi occhi allungati della sera./ Così da noi la luce/ irradierebbe altra luce”. Oppure: “Questa mia anima,/ in carne e depressioni, voglie e Dio,/ si oppone alla natura: le sta sopra”.



La tentazione, verrebbe da dire, sembra quella di desiderarsi quasi tutto spirito. Ma non è così: “Troppo facile/ pensarti un animale, troppo difficile/ uno spirito di carne”. Bisogna avere il coraggio di riconoscersi “presi in ostaggio nella lingua, che adempiamo l’opera del cuore”. E accettare che “Abbarbicato dentro le mie fibre/ qualcosa di celeste/ continua a martellarmi fra le arterie”.

Morasso si esercita, si sporge alla finestra come da un esilio, dice. E in modo definitivo acconsente a riconoscere che “tutto/ il visibile s’intreccia nell’ordito/ della vita, niente non va, // non c’è che un’ora immensa e il cielo/ qui, fermo nel geroglifico del sole”.



Come Ungaretti ne I fiumi, il poeta si commuove entrando nell’acqua e, dice, “come in uno splendore/ mi perdo nello splendore dell’istante”. E chi può raccontare l’istante? Chi può scavare nel mistero, chi lo canta? Chi può assumersene il compito, se non la poesia? Così Morasso descrive anche il suo compito, il destino a cui non si sottrae: “Tento di dare voce alla scintilla/ dell’eterno che mi abita nel tempo”. Deposte le armi, abbandonato il desiderio o la nostalgia di chissà quale spirito o corpo angelicato, sta davanti alla realtà, o, come dice in un suo verso “ai mondi generati per grazia della Parola”, e, citando il suo maestro Luzi, riconoscendo che “due sono le sfere della vita/ o è un’unica apparenza”.

Così si chiarisce ancora meglio il suo compito di poeta: “M’imbatto nei nomi come in un miracolo,/ li assemblo tra i segni in cui mi riconosco/ e sillabo, sgranando in una riga/ a mezza altezza, terra e cielo”. Il poeta, dice Morasso ricordando un altro poeta amato, Mario Benedetti, è “un uomo/ simile a una foglia/ quando il vento incalza,// un essere che trema/ perché è vivo, / e quando trema e si raccoglie/ parla, perché è bello -/ perché, fra noi, chi deve farlo, fa così”.

La purezza, l’ineffabile, il ventoso spirito, la luce che ci piacerebbe regalare al mondo, non sono nostre, dell’uomo e del poeta. Dell’uomo e del poeta – dice Morasso – “fuori dal sogno” dentro il quale “mi ha inchiodato, Dio,/ nel durissimo tempo del rimpianto”, è piuttosto la certezza di essere fatto meraviglia, di essere mosso da una “sorgiva/ fluentissima e tranquilla/ sotto un cielo felice”. Del poeta e dell’uomo è lo struggimento “per tutto ciò che esiste”. E infine, il compito assoluto, dell’uomo e del poeta è quello di “Avere fede, sperare di sussistere/ è scuotersi di dosso l’idea di essere mortali/ non dare tregua alla pazzia d’amore”.

Così c’è in questo libro, in questo attraversamento del mondo e del mistero compiuto portandosi in tasca poche cose essenziali e qualche parola di poeti amici e maestri, quello che il poeta stesso confessa nel testo con cui si apre la sezione “Diarietto metafisico”: “C’è in questa materia/ che geme e stride/ un vuoto un’attesa/ un dipendere da Dio/ c’è in questo viaggio/ una certa dose di spirito/ che unifica stringe/ tutto con tutto/ anche l’idea della fine”.

E questo viaggio si chiude con un poemetto scritto per una mostra dell’artista Roberto Pietrosanti dentro il quale anche le parole della poesia sanno riconoscersi per quello che sono e dovrebbero essere: “frutti dell’amore dato e ricevuto, fatte per essere schiacciate sotto un carro di fuoco, e per far scendere quel fuoco nel cenacolo dell’anima,/ e celebrare, nell’intimo del vero, eucaristia,/ spine su spine”.

Se dunque compito del poeta è quello di “fare attenzione e amare/ sciogliere gli occhi e accogliere la luce/ farla colare a picco dentro l’anima”, bene si comprende come “quella nostalgia dell’altrove, quell’infinito che noi siamo e ci manca” non possa che chiudere in unico abbraccio e benedire il mondo che tale nostalgia è capace di fare nascere. E benché non sia il testo finale del libro di Morasso, credo che questa poesia possa essere considerata come la sua ideale conclusione. O, se si vuole, la sua nuova ripartenza: “Sia benedetto tutto/ il vivo il morto/ i frassini i polimeri i girini/ l’osso ideale di ogni sostantivo/ le pie parole di Gesù nell’orto/ ciò che ha squittito al fiume uno scoiattolo/ la storia il caso umano e le sue tabe/ convergano alla fine in mente Dei// compresa la mia mano/ e tu con lei”.

Forse, leggendo libri come questo, qualcuno potrebbe ricredersi sull’idea che la poesia sia propria inutile ed innocua.

(Massimo Morasso presenterà il suo libro di poesie Frammenti di nobili cose giovedì 15 febbraio alle ore 18 nella sala della Pendola della Villa Reale di Monza. Interverranno Elisabetta Motta e Corrado Bagnoli)

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