Quante volte un viaggio desiderato in territori inesplorati si conclude in modo inatteso: il cammino è completato, l’impegno è assolto, ma la meta – raggiunta – si rivela diversa da com’era stata vista da lontano, al primo passo. Anzi: è proprio da vicino che ci accorgiamo di quanto la realtà – quella delle persone che ci circondano nel viaggio della vita – si lasci infine solo “intravedere”: si mostri sorprendente, sempre nuova, piena di domande assai più che di risposte. Tutti restano – restiamo – “intravisti” agli altri (e forse anche ciascuno di noi a se stesso). Non per questo il desiderio di viaggiare viene meno, diventa anzi più maturo: sempre con una meta, per vedere meglio, per far vedere meglio.



Jacopo Santambrogio – psichiatra dottorando di ricerca presso l’Università di Milano–Bicocca, in attività presso la Fondazione Adele Bonolis Asfra di Vedano al Lambro e il Presidio Corberi di Limbiate – ha compiuto un viaggio di anni fra gli (ex) Ospedali psichiatrici giudiziari italiani. E ha voluto intitolare Gli intravisti il diario scientifico che ne ha tratto e che esce in questi giorni per Mimesis, con le importanti prefazioni di Eugenio Borgna e Massimo Clerici.



A quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia – padre della legge che decretò l’abolizione degli Opg – i “folli rei” rimangono un universo misterioso, ma proprio per questo ineludibile. Un pezzo di realtà difficile da affrontare, penetrare, raccontare: per la scienza medica, per la legge, lo Stato e l’intera società. I “folli rei” sono metafora importante della stessa malattia psichica: quella sofferenza della mente che ha certamente radici biologiche e i cui sintomi vengono curati da farmaci sempre più sperimentati.

Ma resta tuttora – il dolore della psiche – una dimensione umana irriducibile, non sondabile fino al suo fondo: a maggior ragione quando conduce la persona a commettere reati. Qualche volta anche a uccidere. Nel ventunesimo secolo – è la rinnovata auto–provocazione di Santambrogio – è indispensabile interrogarsi ancora sul significato dell’“incapacità di intendere e di volere” codicistica, sulla punibilità dei malati psichici, ma soprattutto: sul cosa fare “con” loro, non solo “di” loro.



Nel suo personale percorso di scoperta e conoscenza, Santambrogio ha scelto la via più sfidante: è andato a trovarli, là dove stanno ora i “folli rei” italiani, assieme agli psichiatri che li curano, agli agenti che li custodiscono, a tutti quelli che si sono messi in testa di occuparsi di loro (sempre più numerosi nella traversata tuttora in corso dai vecchi Opg alle nuove “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, ancora assenti in alcune regioni).

Accompagnato dalla giornalista–fotografa Caterina Clerici, l’autore è tornato a Barcellona Pozzo di Gotto: sede di uno storico Opg siciliano, ma anche il luogo dove già nel 2012 Santambrogio (reduce da un viaggio sui luoghi “basagliani” a Trieste) aveva conosciuto padre Pippo Insana. Già a fine anni 80 il parroco catanese aveva avviato una ricca esperienza di appoggio ai “matti carcerati”, culminata più tardi nella nascita di una Casa di solidarietà e accoglienza: iniziativa pionieristica di vera apertura delle porte dell’Opg verso nuovi modelli di assistenza sociale. 

A Barcellona l’autore incontra Martino, quarant’anni nel vasto arcipelago carcere-Opg, in tutti i suoi gironi più o meno bui. La dipendenza dall’alcol fin da ragazzo ha grippato irreparabilmente il suo motore mentale. La sindrome di Korsakoff lo porta a “confabulare” fra realtà e fiction: ad esempio a parlare di condivisione del carcere con il gangster Vallanzasca oppure con il celebre pentito di mafia Tommaso Buscetta; ma anche, minutamente, di legge Gozzini o Martelli, di legge 180, di diritti nel carcere. E non è affatto deluso o pentito degli anni trascorsi in Opg, Martino. Sa di poter essere un buon contadino, anche un buon fabbro. “È un uomo in pace” sottolinea Santambrogio, che lo pone a modello di carcerato–paziente che non merita di finire i suoi giorni in custodia: come purtroppo accade ancora a molti, troppi. Che troppo spesso perdono via via ogni minimo supporto anche da parte dei familiari. Trovare per loro altre “famiglie” è una strada irrinunciabile: anche se difficile.

Reggio Emilia, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere. Il viaggio fra gli “intravisti” – intervistati ma mai “interrogati”; ritratti nel profilo clinico ma mai giudicati – è scandito da paragrafi che tutto sembrano toccare: “vortice delle sostanze” ed “errore giuridico”; “rivolta contro il padre” e “smostratura del farmaco”; “Tso”, “paranoia” e “schizoaffettività”. Ci sono nomi italiani e non, come Arthur, Imir, Felipe. C’è la storia di un buttafuori-“calciante” – il violento calcio storico fiorentino – e quella del figlio di un boss dello spaccio di cocaina. C’è il malato di “delirio megalomaniaco” che tutto dice di sapere dei segreti Nato; e chi è cresciuto e vissuto fra le prostitute. 

Si parla, certo, di letti di contenzione e farmaci pesanti, ma frequentemente al passato. Nel portfolio fotografico curato da Clerici si vedono invece palestre di ginnastica, atelier di pittori, laboratori artigiani. Naturalmente ci sono ancora celle e sbarre, ma il libro è dedicato “a chi soffre di una malattia mentale perché c’è sempre una speranza”. Il volume di Santambrogio la fa intravvedere molto bene.

“Gli Intravisti – Storie dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari” (Mimesis, 2020) di Jacopo Santambrogio viene presentato venerdì 11 settembre alle 21 presso l’Istituto onnicomprensivo Giovanni XXIII di Vedano al Lambro (Monza e B.za)