La straordinaria vitalità dei tempi che Filippo Tommaso Marinetti voleva catturare nel suo Manifesto futurista del 1909 non era così estemporanea come si è soliti dire. Dietro il Futurismo, la sua suggestione per la tecnica e la sua repulsione per le accademie, c’è un inconsapevole lavorio del contesto socioculturale che dura almeno da tre decenni. L’industrializzazione è partita: per la prima volta nella metropoli italiana, per la seconda volta nell’Europa poliglotta. I saperi tradizionali esibiscono i pennacchi della propria maestà, ma non colgono appieno o forse affatto il divenire di una società composita, desiderosa di sfarinare le appartenenze dei padri anche a costo di mescolarsi in vigorosa massa indistinta. Prova ne sia che tutte le forme di resistenza al razionalismo tecnico, nella fine del XIX secolo, periscono sgraziatamente, confinate in un limbo di marginalità coattiva (basti pensare alla parabola illusoria quanto passionale della Scapigliatura milanese).
I futuristi rischiano la damnatio memoriae della loro vicinanza al fascismo non perché molti di loro proclameranno un endorsement compiaciuto dopo la marcia su Roma; quella somiglianza di impulso originario si vede già molto prima, nelle idee politiche che circolano tra i futuristi all’inizio degli anni Dieci e in quelle che esibiscono alla fine dello stesso decennio i primi fascisti. Per capire molte cose dei primi decenni del Novecento italiano si deve fare caso alla confusione e al vorticoso rimescolamento di identità e categorie che taglia in due i partiti, le scuole artistiche, i generi letterari. Quando il fascismo degli albori prova a darsi un programma, nell’adunanza di San Sepolcro, il quadro sembrerebbe quello di un’accolita di sbandati e/o disadattati. In quel 1919 ci sono interventisti che la magra figura dell’Italia in guerra ha gravemente ridimensionato; ex-sindacalisti delusi, magari nostalgici del mutualismo degli inizi e poi alle prese con associazioni e strutture dove la burocrazia ha surclassato la filantropia; ci sono nazionalisti e decadenti. Anarchici “sfollati” dalle sigle politiche e dalle riviste d’area, persino massimalisti e socialisti rivoluzionari che, esasperati dalle presunte mollezze del dibattito italiano, guardano all’esperienza bolscevica. E in quel crogiolo, ovviamente, ci sono anche antibolscevichi di ferro, che disprezzano alla pari i tedeschi, gli inglesi e i leninisti, coi loro diktat della Terza Internazionale da mandare a memoria nemmeno fossero spartiti e pentagrammi.
Al congresso di Livorno in cui i socialisti e i comunisti si separano sull’espulsione della destra riformista e borghese solo i moderati (perlopiù deputati e contadini che non vogliono governi di collaborazione, ma nemmeno epurazioni violente) mettono a verbale la violenza squadrista e trasecolano davanti all’indifferenza dello stato maggiore social-comunista. Tanto gli opportunisti quanto i rivoluzionari si fanno prendere la mano da altre faccende, da questioni teoriche o diatribe interne e gli episodi di violenza si moltiplicano in tutto il Paese.
L’ala sinistra del Futurismo aveva già dato, già sconfitta; non era riuscita a egemonizzare la sua avanguardia, non aveva fatto purtroppo né arte né politica. In questa strana condizione di mezzo periscono male i suoi mentori, anarco-socialisti e repubblicani, scrittori occasionali, accademici mancati: il giornalista Tintino Persio Rasi, perseguitato da tutte le polizie d’Europa e poi morto da migrante negli States ormai vecchio; l’angelo del biennio rosso, quel Dante Carnesecchi passato dalla propaganda politica all’extralegalità; Giovanni Governato, il cromatico, che solidarizzò con la parte più creativa dell’arte italiana che fu però a lungo meno ostile con la linea di Marinetti (Carrà, Balla, Boccioni). Si trasferì a Nervi negli anni Trenta: il suo amaro ritiro a piccole xilografie e assemblaggi di materie e materiali e memorie anticipa la fine di un’utopia. L’uomo che corre da lì a poco andrà a sbattere contro le leggi razziali, la guerra mondiale, i giuramenti e l’obbligo della camicia nera.