Per quanto si possa essere lettori accaniti e onnivori si finisce sempre per focalizzarsi e specializzarsi su un campo di interesse. Chi scrive queste righe predilige la saggistica storica e vorrebbe leggere romanzi storici che siano di livello alto, o meglio, sorprendentemente alto.
Di romanzi storici ce n’è a un soldo la dozzina e, di solito, possono essere di piacevole lettura, ma non superano i limiti del prodotto commerciale. Non così per Destini. La fatalità del male (Ares, 2020), l’ultima fatica di Bruno Nacci, un autore che ho incontrato per la prima volta in questa occasione.
L’idea base di Nacci di descrivere cinque figure di criminali storici, prima o dopo il culmine della propria ascesa politica, era già abbastanza intrigante. Ma, come diceva Napoleone, “Concepire è poco, eseguire è tutto”.
Eppure, appena inizia la lettura del primo racconto “Là nel ristorante” si viene calati in un’atmosfera degna di Flannery O’Connor dove la rudezza del linguaggio e dei comportamenti stride con la sensibilità e il senso di colpa dei protagonisti.
In “Il vento e il ventaglio” una Parigi fredda e distante circonda la storia di un uomo convertito al male da una frase quasi distratta nella sua ideologica sommarietà: un segno di quale responsabilità abbiamo nei rapporti con le persone, un incitamento a non cedere alla barbarie del linguaggio imperante che non può che provocare altro male.
In “Il giardino” chi ama pellegrinaggi in luoghi lontani e solitari può ben ritrovarsi, salvo poi essere nuovamente sorpreso e ribaltato da un racconto allucinato degno di Philip Dick.
Per “Lo studente” è quasi inevitabile citare Roth e atmosfere viennesi maleodoranti e semibuie, dove l’emarginazione dei più poveri si abbina alla descrizione di edifici antichi e barocchi.
Infine “Le ultime lettere di Lucio Anneo Seneca” sono il passaggio segreto per penetrare nella mente di un filosofo da sempre amato e di cui, nella mia ignoranza, non conoscevo risvolti criminali di cedimento al male.
Ma, come diceva Solzenicyn, “che il male copra tutto, che si affermi su tutto ma che non si affermi attraverso di me”. Ecco, i nostri cinque criminali, due asiatici dell’era del Vietnam, due nazisti e un antico romano, hanno ceduto al male perché erano deboli: e oggi, paradossalmente, si giustifica sempre più la debolezza d’animo di chi fa il male non per emendarla e far rinascere il peccatore, ma per confermare quella debolezza e propagare la disgregazione morale che sta uccidendo questo nostro mondo.
Cinque racconti non facili, per quanto appassionanti e, ripeto, sorprendenti: così sorprendenti che, a differenza di altre recensioni lette qua e là, vieto a me stesso di fare “spoiler” per lasciare al lettore il gusto del colpo di scena, del “bouleversement” della “kata-strofé” di cui si gode leggendo queste pagine.
Chiusa l’ultima pagina, con una lettera memorabile di Seneca a un uomo cui somigliamo e vorremmo somigliare, restano da fare i conti con noi stessi e con il nostro limite: un limite amato e riscattato da questo Natale che, ancora una volta, avviene non per dare speranza, ma per incarnarla nei nostri destini.