Per gli antichi Sumeri la scrittura, la straordinaria arte di dare forma alle parole, aveva origini divine che risalivano a un remoto passato mitico: prima del diluvio, quando “la regalità scese dal cielo”, i sovrani di Sumer furono assistiti da sette saggi semidivini, gli Apkallu, inviati dal dio Enki allo scopo di insegnare agli uomini tutte le regole, le arti, le scienze e i mestieri sui quali si fondava la civile vita urbana. Il primo di questi saggi fu Oannes, una creatura per metà uomo e per metà pesce uscita dal mare, che svelò agli uomini anche la scrittura.
Effettivamente quella che prese avvio nell’antica Mesopotamia attorno al 3000 a.C., con la nascita della scrittura cuneiforme, è un’avventura culturale che segna una vera svolta nella storia della civiltà. Così recita un inno sumerico in lode dell’arte della scrittura, che lascia bene intendere quanto essa fosse stimata: “L’arte della scrittura è la madre degli oratori, il padre dei maestri; l’arte della scrittura è appassionante, non ti sazia mai; l’arte della scrittura è difficile da imparare, ma colui che l’ha appresa avrà il mondo in mano”.
L’ultima grande stagione della civiltà sumerica fiorì alla fine del terzo millennio a.C., all’epoca della famosa Terza dinastia di Ur, la capitale di Sumer resa celebre dalle campagne di scavi condotte tra il 1922 e il 1934 da sir Leonard Woolley, che riportò alla luce la Ziqqurat e le tombe reali con i loro impressionanti ritrovamenti. Con il 2000 a.C., i Sumeri furono soppiantati sotto il profilo politico, etnico e linguistico prima dai Babilonesi e poi dagli Assiri, ma, nonostante ciò, il loro retaggio culturale rimase un fondamento imprescindibile della civiltà dell’antica Mesopotamia; di questo retaggio culturale la scrittura cuneiforme era un elemento destinato a rimanere in auge ancora per molti secoli. Sebbene la lingua sumerica fosse stata progressivamente abbandonata nell’uso quotidiano, continuò ad essere studiata nelle scuole scribali e rimase nei secoli successivi come lingua erudita e con connotati religiosi e rituali, dal momento che anche il sistema religioso sumerico sarebbe stato nel suo complesso conservato, pur con alcuni adattamenti, dai nuovi dominatori della Mesopotamia. Come osserva il grande assiriologo italiano Giovanni Pettinato, non è del resto un caso se Babilonesi e Assiri scelsero come protagonista indiscusso della loro epica un eroe sumerico, Gilgamesh, re di Uruk, figlio di una dea e del re semidivino Lugalbanda, una figura giunta fino a noi dai tempi lontani in cui la storia sfuma nel mito.
A svolgere un ruolo importante nella trasmissione della stratificata epopea di Gilgamesh (antichi poemi sumerici, una versione babilonese più antica e infine una più tarda, divenuta poi quella classica, senza contare il materiale rinvenuto all’infuori della Mesopotamia), come pure nella conservazione del patrimonio culturale di Sumer, Akkad e Assur nel suo complesso, fu il ritrovamento, alla metà dell’Ottocento, della biblioteca reale di Assurbanipal (668-627 a.C.), rinvenuta durante le campagne di scavo a Ninive da Austen Henry Layard e dal suo assistente Hormuzd Rassam, le cui scoperte sono all’origine della raccolta di tavolette cuneiformi unica al mondo da allora custodita e studiata presso il British Museum.
“Warrior. Scholar. Empire builder. King slayer. Lion hunter. Librarian”: così, nella grande mostra che l’illustre museo londinese ha dedicato ad Assurbanipal tra 2018 e 2019, veniva descritto l’ultimo grande re assiro; al di là della comprensibile ricerca di un sicuro effetto sui visitatori dell’esposizione, non era così fuori luogo definire il sovrano di Assur anche un “bibliotecario”, oltre che uno “studioso”. Egli stesso ha voluto esprimere chiaramente l’orgoglio per la vasta cultura conseguita nel corso di lunghi anni di studi e la vastità dei suoi orizzonti intellettuali: dichiara infatti, tra l’altro, di essere stato educato in tutte le più raffinate arti scribali, di saper interpretare i presagi celesti e terrestri, di aver letto anche i più oscuri testi in sumerico e accadico e di aver saputo interpretare iscrizioni dell’epoca precedente il Diluvio.
Che la sua passione per il sapere fosse autentica, e non solo una mera formula autocelebrativa, lo dimostra senz’ombra di dubbio la biblioteca reale di Ninive, concepita per custodire il patrimonio intellettuale dell’epoca nella maniera più completa possibile e con ogni mezzo, attraverso acquisizioni, requisizioni e l’indefessa attività dei copisti, nell’ambito di un programma sistematico. La biblioteca di Assurbanipal, comprendente circa 30mila tavolette e frammenti, di cui alcuni pezzi ben conservati e di maggior pregio sono visibili in esposizione permanente al British Museum, abbracciava diversi ambiti disciplinari e generi letterari: testi religiosi, rituali, magici, divinatori, epici, storici, numerose interpretazioni di oracoli e presagi e infine testi amministrativi, lettere, rapporti. Sorprendenti, per il bibliotecario di oggi, alcuni elementi di carattere organizzativo/gestionale, come la presenza su molte tavolette di colofoni riportati sui margini e contenenti il numero della tavoletta, la serie di appartenenza e la prima linea di testo della tavoletta seguente; in certi casi era indicata anche l’appartenenza del manoscritto alla collezione di “Assurbanipal, re del mondo, re di Assiria”.
Tra i testi trascritti dai copisti al servizio del re, vi era anche la più grande opera letteraria dell’antica civiltà mesopotamica, l’epopea di Gilgamesh, citata poco sopra: senza le tavolette rinvenute negli scavi di Ninive, non sarebbe stato possibile arrivare all’attuale ricostruzione del testo, pur sempre lacunosa. Dopo l’importante edizione di Giovanni Pettinato, del 1992, una nuova edizione che ricostruisce il testo tavoletta per tavoletta e fa stato delle diverse versioni, a partire da quella “classica”, la meno frammentaria, risalente alla fine del II millennio a. C., è stata edita nel 1999 a cura dell’assiriologo inglese Andrew George ed è apparsa in edizione italiana nel 2021.
La riscoperta di Gilgamesh dalle nebbie del passato comincia nel 1872, quando George Smith, incaricato dal British Museum di studiare la collezione di tavolette di Ninive, traduce per la prima volta la famosa tavoletta XI dell’epopea, quella che riporta la stupefacente descrizione del Diluvio narrata dal Noè mesopotamico Utnapishtim, conoscitore dei segreti del cosmo e del senso della vita.
Il significato di questo antichissimo capolavoro letterario sta infatti nella riflessione sul destino dell’uomo e sul significato della vita e della morte, che rappresenta il nucleo centrale del poema, così come quella sui doveri del re ideale: venerare gli dèi, preoccuparsi che ne sia celebrato il culto, prendersi cura dei sudditi come un pastore fa col suo gregge. Gilgamesh, re di Uruk, inizialmente tormenta i suoi sudditi, non sa controllare il furore e l’arroganza giovanile, a tratti manca perfino di rispetto verso gli dèi, profanando la sacra foresta dei Cedri e insultando la dea Ishtar (Inanna per i Sumeri). Ossessionato dal pensiero della morte e dal desiderio dell’immortalità, si sottopone a un viaggio estenuante fino agli estremi confini del mondo. Quando, infine, incontra l’anziano Utnapishtim, il sopravvissuto al Diluvio che ha ottenuto in dono l’immortalità, comincia a compiersi nell’eroe un mutamento interiore. Di ritorno a Uruk, esausto, ma finalmente in pace con se stesso, Gilgamesh ha acquisito quella saggezza che è la comprensione del suo ruolo, come uomo e come sovrano, nell’ordine cosmico voluto dagli dèi.
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