Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo uno stralcio del nuovo commento ai Vangeli domenicali dell’Anno B di Marco Pozza, dal titolo “Ognuno fa il fuoco con la legna che ha” (Rizzoli, 2023)

Credeva nell’usare le poesie per dire le cose.

Aveva parole barbare, immense, selvagge.

Cristo, da parte sua, era un poeta: amava scrivere poesie per raggiungere gli amici nei posti più segreti, dove sapeva che non sarebbe riuscito altrimenti a raggiungerli. Fu il sommo poeta, dunque: per questo chi provò a prenderlo se lo vide scivolare via. Come sabbia tra le dita: “Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò” (Lc 4,30). Era un contrabbandiere, seduto sul confine della storia.



Chi, anni dopo, leggerà queste sue parole, rimarrà stregato non da quelle lettere misteriose, arcaiche, arcane che le compongono, ma dagli spazi bianchi che restano tra una parola e l’altra. Tra una pagina e l’altra dei Vangeli suoi.

Quegli spazi sono dei monolocali a disposizione di chi vorrà passare parte del suo tempo a scandagliare gli abissi dell’anima: quando si guarda fuori da un finestrino si inizia a sognare, quando si guarda dentro se stessi si inizia invece a svegliarsi. La poesia resta materia per amanti. Il Vangelo, invece, è scuola di poesia: “Non nego che ci debbano essere preti per ricordare agli uomini che un giorno dovranno morire – scrisse quel gran genio di Chesterton –. Dico solo che in certe epoche strane, come in quella che viviamo, è necessario avere un altro genere di preti, dei poeti, per ricordare agli uomini che ancora non sono morti”.



Non importa.

Ognuno fa il fuoco con la legna che ha.

Nel frattempo un asino può anche fingersi cavallo, ma prima o poi raglia.

Per quanto concerne Cristo, abituò i suoi amici a prendersi del tempo e far trascorrere, tra la domanda e la risposta, un intervallo di tempo. Questo perché chi ha posto la domanda possa fare, se vuole, qualche precisazione. E chi deve rispondere, possa esaminare per bene ciò che gli viene chiesto. Per tutto il resto, in vita il messaggio che riservò loro fu chiarissimo: “Capiterà di ascoltare commenti di persone un po’ acide, magari tristi, forse avvilite. Il vostro esame di maturità sarà di ascoltarle senza farvi poi risucchiare”. Per questo ogni volta che li salutava, faceva l’occhiolino. Come dire: “A domani!”



Pietro, che si sentiva l’impresario dello spettacolo che aveva Cristo come numero migliore, a volte se lo ripeteva, pizzicandosi la pelle per assicurarsi che fosse vero ciò che aveva sentito: “Bello sentirsi dire a domani – pensava – Non so ancora quale sarà, ma so già che qualcuno è pronto a scommettere su me”.

Serve sempre un estraneo per tentare di conoscere la verità di noi.

Come fu degli inizi, ai tempi della pesca, così fu della fine.

Scrive Matteo, l’ex gabelliere accasatosi alla scuderia di Cristo: “Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato” (Mt 28,16). Al momento dell’Ascensione, dunque, il cerchio si chiude dove tutto ha avuto origine, nella Galilea degli esordi: Nazareth, Genezareth, Cana. Terra di pesca, di carpenteria, di nozze, madonne. Di chiamate, d’invocazioni e grandi aspettative. Laddove tutto inizia tutto finisce.

Anche gli Undici (avete visto, per caso, passare Giuda?) sono ancora gli stessi degli inizi: esistenze friabili, promesse sulla rena. Facce, storie dalle quali non ci si potrà aspettare granché dopo i capitomboli giù dal Monte Calvario. Lui, comunque, anche da Risorto mostra di non aver mutato la sostanza delle scelte compiute: ancora loro, sempre loro, alla faccia di tutto ciò che s’andava dicendo nel vicinato. Anche stavolta, nell’attimo in cui riparte per salire al Cielo, il Cristo (ri)sceglie loro, gente famosa per la loro fragilità: “Nelle mani giuste – sembrava ripetere il Rabbì anche dopo essere risorto – la fragilità smetterà di sentirsi fatta di acciaio”. D’altronde è la storia di ogni inverno che fa calare la neve dal cielo: i fiocchi di neve sono tra le cose più fragili che esistano in natura, eppure guarda di che cosa son capaci quando decidono di fondersi assieme. Quegli Undici, da soli, non combineranno mai un granché. Fusi assieme diventano Chiesa, la Chiesa nascente. Nelle cui vene scorre sangue fragile: “La fragilità, ragazzi, è un valore non una mancanza – pare quasi di sentirla ripetere la Madonna alla gente amica del suo Figliolo –: vi renderà meravigliosamente umani”. Credibili.

Peggio di chi si vende per tutto è chi si fa comprare con niente.

Sempre e soltanto loro, dunque.

Ognuno fa il fuoco con la legna che ha.

(…)

Fu così che venne al mondo la Chiesa: dall’incontro tra un Dio ferito e una masnada di discepoli nevrotici, spaventati. Costretti ad uscire da quel cenacolo ch’era diventato la loro “comfort zone” per permettere al Vangelo di continuare a espandersi nel cuore della storia. Scelse la strada, le piazze, gli spazi larghi e le zone aperte perché volle che la sua Chiesa fosse così ampia che ogni persona, una volta entrata, ci stesse dentro a modo suo. Che ognuno, nella sua Chiesa, ci entrasse da una porta diversa: fosse per Lui – come scrisse Chesterton – non ci sarebbero mai due persone che entrano esattamente da una stessa porta.

La volle santa.

Per questo scelse come pietre fondatrici undici uomini di una debolezza imbarazzante, d’una fragilità assurda: solo così, un giorno, il mondo potrà capire che la Chiesa sta in piedi per l’opera di Cristo, nonostante i ministri traditori. Per tutto ciò che riguarda il resto, non mise nessuna condizione a priori: che solo si ricordassero che in qualsiasi chiesa un giorno entreranno, si entrerà per amare Dio e si uscirà per amare il prossimo. O si sarà amato Dio solo per gioco. Che ogni uomo, nella Chiesa, si senta a casa sua: è la “Madre de’ santi, immagine della città superna” (A. Manzoni). Il cuore di Dio nella storia.

Cuore che pulserà per coloro che non ne fanno (ancora) parte.

“Un Dio, amico mio, Dio si è scomodato per me.
Dio si è sacrificato per me.
Ecco il cristianesimo”. (C. Péguy)

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