“Dobbiamo voltarci. Ancora gambe, ancora occhi, e rumori di fiammiferi che si accendono nella bocca di qualcuno”: sono le parole conclusive di Arruina, il romanzo d’esordio di Francesco Iannone pubblicato da Il Saggiatore. Un finale che ci annuncia che niente è finito, che brucia ancora il fuoco nella bocca del Poeta.



Perché Francesco è poeta, il libro porta come sottotitolo “Una favola oscura” e aspettatevi una narrazione vischiosa e fangosa, in cui la trama nuota contro correnti schifose e mortifere, in cui il sangue è nero e coagulato e le Nerissime Streghe mestruate e sterili rapiscono bambini perfetti per divorarli.

Li rapiscono in culla, nell’utero materno sono già destinati al marciume della vita, all’alluvione, il rigurgito della montagna che nel millenovecentonovantotto il cinque di novembre ha fatto contare anelli di cadaveri.



Ora, la fiaba prevede il reame salvato e l’eroe che salva: in questo caso la piccolissima eroe è una bambina, fragile nelle ossa e purissima. Una figlia che padre e madre, attraversando un viaggio orrido, riescono a salvare, una piccola e candida ostia offerta in cambio della vita di tutti, una briciola di pane, un velo di zucchero sulla sua gola, segni di percosse sulle natiche. Sua madre prega “prendi me, fa che non muoia”; suo padre versa sangue per poterla rivedere.

Potrebbe sembrare un film horror o una fiaba medievale misterica, ma non mi basta: è una discesa all’inferno, semplicemente, poeticamente.



È l’inferno del nostro mondo scontento, è il nero quotidiano della periferia del nonsenso, il liquido pensiero marcescente che imputridisce nel pantano della ragione. Il risultato del ristagno di un mondo, un villaggio politico in cui si secca la sorgente e ha bisogno di una purezza infantile e innocente, ha bisogno della protezione del padre debolissimo e della disperazione di una madre sciamannata.

Strano questo romanzo, che si arrotola su di sé, che è scurissimo, ma usa una poesia limpidissima, raramente ne ho trovata di tale livello; si gode ogni frase, ogni pagina e si cammina faticosamente con i piedi lenti e impantanati: non serve correre verso il finale, ma basta alzare gli occhi, o abbassarli, per riempirsi di ogni consapevolezza. Per farsi trasportare dalla metafora della Grande Bruttezza, la Grande Immondezza. Per tutti i bambini perduti, annegati, insozzati, per la terra disseccata, per i Matti, gli M’Pasturati, per le Sciangate e le Iannare che ci perseguitano ancora dalla notte dei tempi e ci fanno disgrazia, e ci fanno desiderare ogni grazia.

Questa strana favola ha bisogno di essere trasportata fuori dalle sue pagine, necessita di essere messa nella poesia più forte, civile oserei dire. E c’è bisogno davvero di qualcuno che dica di tutto il brutto e di tutto il male e di tutti quelli che lottano per il bene, ballerino come una fiamma di fiammifero, protetto nella bocca come un fuoco: se davvero non si riesce ad ascoltare il grido del notiziario, assuefatti e con le orecchie cotonate, forse occorre ritornare a percuotere i cuori attraverso parole simbiotiche, attraverso le favole.

Francesco è del Sud, resiste nel Sud, lo rappresenta amoroso e perverso, il suo dire di padre racconta la fatica di stare a crescere famiglia, a lavorare in bilico estremo a schivare la miseria, declinata in tutti i sensi; lui ha diritto di esserci il 17 maggio a Napoli a presentare questo libro e il suo nome. Vi consiglio di conoscerlo; di leggerlo; ce ne sono, come lui. Lui c’è.

Venerdì 17 maggio 2019, ore 18.30 a Napoli, Piazza Dante, 44, Caffè Letterario Il tempo del vino e delle rose