Perché a tanti di noi piace così tanto il calcio? Cos’è che succede, quali magie si sprigionano tra quei ventidue ragazzi che si sfidano per renderci così attratti da questo gioco meraviglioso? Lo vediamo da soli o con gli amici, al bar, a casa o direttamente allo stadio. E sappiamo bene che la partita non termina al fischio finale, va avanti, nelle delusioni dolorose, nel rievocare le giocate perfette, in quell’adrenalina di certi attimi che ci fa sospirare. Possiamo parlarne per giornate intere. Ridere, azzuffarci e compiacercene.
Il signor Zdenek Zeman, che oggi ha settantacinque anni, in tantissime (e alcune indimenticabili) stagioni calcistiche da allenatore, non ha fatto che una sola cosa, più di qualsiasi altra: ricercare, costruire e affermare la bellezza. La bellezza del colpo, della giocata, della coralità armoniosa di una squadra che pennella traiettorie fantastiche e fa goal. E continua dopo ogni goal a ricercare – come una sete inestinguibile – un nuovo frammento di bellezza da riaffermare, perché la bellezza non seduce solo lo spettatore, ma anzitutto chi la serve, chi ne diventa strumento. Sono i giocatori i primi – una volta compreso il valore – a non poterne fare a meno.
“La bellezza non ha prezzo. Non va mai venduta o barattata, per nulla al mondo. È la luce che illumina ogni tunnel buio. È l’antidoto ai mali. Fa sentire forti. Fa vivere a testa alta. L’ho cercata e inseguita tutta la vita”.
È un bel lavoro cercare la bellezza perché la parte migliore di noi la cerca sempre, nel peggiore dei casi la spera, anche in un lavoro ripetitivo o frustrante; ma è anche esigente la bellezza, non si concede facilmente, chiede dedizione, applicazione, passione, fatica. Il talento da solo è poca roba: “puoi essere tecnicamente forte quanto vuoi, ma sul pallone devi arrivare prima del tuo avversario”, che significa correre, allenarsi, allenarsi e allenarsi.
Ci ha messo tutta la vita per “confessarsi” in un libro, La bellezza non ha prezzo, Zdenek Zeman, scritto con Andrea Di Caro (Rizzoli 2022), una lettura che merita, perché apre squarci insospettabili su questo boemo che ha cambiato il calcio, che avrà fumato qualche milione di sigarette, che senza clamore ha fatto vedere al mondo cose indimenticabili (Zemanlandia e intere generazioni di campioni che ha tirato fuori dal nulla), suscitando in ogni piazza l’entusiasmo dei tifosi (è riuscito nell’impresa impossibile di farsi amare sia dai laziali che dai romanisti), stima da dirigenti e colleghi e amore dai giocatori (andate a leggere cosa dice di lui Totti). Lo ha fatto con il suo stile impeccabile, senza mai alzare la voce, neanche quando – isolato – ha attaccato i “poteri forti” del sistema e denunciato l’uso sistematico di sostanze irregolari dei giocatori della Juve, perché la bellezza cammina a braccetto con la purezza. Ne ha pagati di conti: lo hanno messo alla porta e gli hanno impedito di lavorare, ma un uomo così non si lascia piegare e la bellezza vince, ancora a settantacinque anni continuando ad allenare anche in serie C.
Ma oltre o meglio insieme allo Zeman allenatore c’è l’uomo, che accetta di mettersi a nudo in sentimenti intimi, anche solo per pochi accenni: quando racconta del cancro (vinto) dal figlio e del dolore che avverte domandandosi spesso “ma sono stato un buon padre?”. Oppure quando si lascia (un pochino) andare ripensando al momento in cui può – dopo decenni – riabbracciare suo padre, sua madre e la sorella rimasti oltre cortina: “non chiedetemi di raccontarla – sussurra – comprenderete il pudore di un uomo di settantacinque anni davanti a qualcosa di così grande, intimo e privato … direi semplicemente che ero felice”.
Grazie mister, hai lasciato il solco della bellezza che resta, lo certifica Arrigo Sacchi: “uno va allo stadio, non sa chi è l’allenatore, poi vede la partita e dice: è una squadra di Zdenek. Lui ha cercato di vincere attraverso il merito e la bellezza in un Paese che non sempre riconosce il merito e la bellezza”.
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