Il 2021 per Anna Maria Farabbi – poeta, narratrice, saggista – è risultato all’insegna d’un tris di pubblicazioni. L’autrice ha infatti dato alle stampe due testi: in primo luogo un saggio, Il canto dell’altalena. L’oscillazione della figura tra il gioco e il mito (pièdimosca edizioni), nonché la riproposta di un’intervista col non-vedente John M. Hull, dal titolo Il significato del buio (Terra d’ulivi edizioni); ma al contempo, sempre quest’anno, è uscita una bella monografia di Milena Nicolini su di lei: L’uroboro nell’opera di Anna Maria Farabbi (Al3viE – Kaba edizioni), con particolare attenzione all’ultimo scritto della poliedrica scrittrice umbra.



Quantunque i tre libri siano parimenti notevoli, intendo qui rivolgere la mia attenzione al Canto dell’altalena, dove viene operato un collegamento tra i più tradizionali giochi infantili ed i miti, tenendo conto che non solo in entrambi detti ambiti paradigmatici sono presenti narrazioni/figurazioni le quali non mutano (o quantomeno, nel trascorrere del tempo, subiscono appena variazioni non sostanzialmente significative), ma soprattutto evidenziando che tali mondi paralleli propongono modelli o strategie comportamentali a cui attenersi e la cui inosservanza implica esclusioni e veri e propri exitus: siano essi dal gioco, dal contesto culturale condiviso, e persino dall’esistenza.



I giochi sempre corali/collettivi e mai individuali/narcisistici ai quali si accosta la narrazione e riflessione della Farabbi adulta sono quelli esperiti dalla Farabbi bambina nel paese appenninico di Montelovesco, luogo per lei nata in città in cui ebbe la fortuna di imparare “dalla terra, dalle bestie, dai contadini, dai pastori, dalle forme del cielo che lassù mi precipitavano improvvisamente dentro gli occhi o tra i piedi”. Ed è giusto alle “lingue” di detta realtà “minerale vegetale animale” che l’autrice ancora fa riferimento, sentendosene parte integrante. Quanto alla radice comune dei due temi esplorati, è l’immagine polisemica della figura ad essere colta qui come minimo comun denominatore. “Gioco e mito sorgono da uno stesso fulcro basato su figure che nei secoli vengono assorbite, trasmesse, ereditate, fluendo nell’alveo profondo dell’inconscio collettivo”.



I miti vennero creati da degli uomini, e i personaggi principali che li abitano sono perlopiù maschili, in ossequio al patriarcato dominante di cui risultano espressione, ma sono le deuteragoniste femmine a interessare maggiormente la Farabbi, che si sofferma su Penelope, Circe, Antigone, Medea, Cassandra, Tiresia (poi spiegherò il perché di questa scelta, solo in apparenza discordante), nonché sulle sirene. Intorno a Penelope la scrittrice, nel 2003, aveva già pubblicato un breve saggio (peraltro ripresentato oggi in appendice al Canto dell’altalena) e su di essa ritorna, mettendo ulteriormente a fuoco tale figura esemplare di donna (in primo luogo signora e padrona di se stessa, oltre che sovrana) e ripercorrendone il cammino d’individuazione – svolto attraverso un’erranza solo a prima vista statica – espressivo di un “andare” verticale (opposto e speculare a quello orizzontale di Ulisse) che avviene esclusivamente dentro “la propria terra interiore”.

Accanto alla regina di Itaca, la Farabbi si sofferma pure su Circe: figura dell’erotismo femminile più penetrante e “arcano”, per la quale amare è “ricevere il meglio dall’altro e lasciarlo andare” senza alcuna velleità di possesso, come fa la maga quando Ulisse decide di abbandonarla. Ancora, sono le anticonformiste Antigone e Medea ad essere celebrate. La prima per il suo coraggioso/pietoso rifiuto di opporsi alla legge disumana di Creonte che vuole rimanga insepolto il corpo di Polinice, fratello della donna, reo di aver tradito la propria polis. La seconda, vittima anch’essa della tracotanza maschile, che pur divenendo assassina dei suoi figli ma solo per sottrarli, dice bene Anna Maria Farabbi, ad “un futuro infamante che li avrebbe offesi, mortificati, esiliati, perseguitati, estinti dalla faccia della terra” merita tutta la nostra compassione/comprensione.

Non da ultimo la profetessa Cassandra accostata qui alla figura speculare dell’indovino Tiresia, per sette anni trasformato in donna causa un atto sacrilego e dunque anch’egli femminile nell’animo : colei che osò rifiutarsi ad Apollo, ovvero al potere maschile, e venne punita attraverso un ostracismo sottile, quello di non venir più ascoltata da nessuno, per quanto verace. Infine le sirene, considerate nell’immaginario collettivo fascinose ma temibili seduttrici: sorta di aliene dai poteri inquietanti. Tuttavia l’autrice si ribella al banale stereotipo a cui sono sempre state costrette queste figure mitologiche, quasi invitandoci a considerare non quale esca mortifera il loro canto, ma quale occasione per una metànoia profonda, per un’apertura all’inaudito, alla abdicazione egoica, alla ri-nascita spirituale e al mistero.

Non manca in questo libro davvero coinvolgente tramato mediante una scrittura ora narrativa, ora filosofica, ora poeticissima una riflessione sull’altalena, che può esser colta come gioco e insieme come archetipica figurazione mitologica. Gioco non tanto autoreferenziale/solipsistico bensì espressivo d’uno slancio gratuito, senza meta, e di una disponibilità all’aperto, per dirla con Rilke. E in parallelo immagine mitopoietica, se ospite dell’altalena è la Grande Dea dell’antica civiltà cretese vedi la statuetta d’argilla che così la raffigura nel museo di Heraklion a simboleggiare equilibrio, levità, energia creativa, volo.

Su tutto ciò lascio ora la parola ad Anna Maria Farabbi, affinché il lettore possa gustare da subito qualche riga del suo testo mirabile: “L’oscillazione dell’altalena: è uno spicchio di spirale. Non è uno spicchio di cerchio. La curva di oscillazione è asimmetrica, aperta, generata da un punto infinitesimo, interiore, intimo, che possiamo chiamare origine o polo. L’ospite dell’altalena ondeggia, partecipando alla creazione in una curva cullante, conciliante, energetica e armonica, governando la sospensione e l’esercizio fisico e psichico dell’equilibrio, nelle dinamiche ritmiche della spirale che la trascina e attraversa. L’esperienza dell’altalena genera una sensazione né di benessere né malessere, ma di uscita dal quotidiano, dal mondo, colmati dentro un flusso spazio temporale che proietta altrove, in un non pensiero, non persi, non in trance, ma altrove, in un volo rasoterra”.

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