Qualche tempo fa Il Sussidiario ha pubblicato un lungo articolo di don Luigi Pretto sul tema della struttura del paradiso dantesco, un argomento di grande fascino che da sempre mette alla prova esperti e studiosi di tutto il mondo. Nell’articolo il prof. Pretto presenta una sua interpretazione delle visioni dantesche degli ultimi canti del Paradiso, lamentando lo scarso interesse che finora la critica ha riservato alle sue tesi. Nel contempo egli si sforza di delegittimare un’altra ipotesi di lettura della configurazione geometrica del cosmo dantesco, arrivando a definirla “un cumulo di contraddizioni”, pur dimostrando suo malgrado di non averla ben compresa. Si tratta di un’interpretazione che negli ultimi decenni è stata considerata da vari studiosi, perlopiù provenienti dal mondo scientifico, e che ho personalmente approfondito ed esposto in varie occasioni, in particolare nel mio libro Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) a cui Pretto fa ripetutamente riferimento.
Non è certo il caso di descrivere qui nel dettaglio la visione geometrica in questione, né come essa sia suggerita da un’attenta lettura delle terzine dantesche (si veda il Capitolo 3 del libro citato, pp. 68-98, e relativa bibliografia, pp. 283-284). In estrema sintesi, si tratta della possibilità che Dante – direttamente o mutuando da fonti esterne – abbia intuito un cosmo con le proprietà geometriche di una superficie sferica, pur essendo uno spazio in tre dimensioni. Si tratta di un pensiero profondo e semplicissimo, che non richiede sofisticate conoscenze di geometria né di matematica, ma esige una mente aperta, pura, disponibile a guardare aspetti della realtà apparentemente ovvi con occhi diversi. Qualcosa di simile a quello che dovette passare per la mente dei primi che concepirono la Terra non più come un disco piatto, ma come un globo sferico fluttuante nello spazio.
Nel suo lungo articolo Luigi Pretto esclude tale lettura in modo categorico e a tratti irridente, ma nel contempo dimostra di non averne ben afferrato il senso. Quando ad esempio afferma che, secondo tale ipotesi, nel cosmo di Dante gli angeli vivrebbero “in una quarta dimensione dello spazio a loro destinata”, dimostra semplicemente di non aver colto l’idea di curvatura dello spazio. Sarebbe come dire che, per spiegare come mai due persone in cammino in direzioni opposte sulla superficie curva della Terra prima o poi si incontrano, occorresse pensare che una delle due deve aver preso un aereo.
Quando poi egli sostiene ironicamente che, secondo tale lettura, “addirittura Dante anticiperebbe di sei secoli la teoria einsteiniana della relatività generale (1917)”, evidentemente non coglie il punto. Sarebbe come affermare che Leucippo e Democrito proponendo l’idea di “atomo” hanno anticipato la meccanica quantistica e la fisica delle particelle elementari. È un’esagerazione insensata… forse non c’era bisogno di costruire l’acceleratore LHC per scoprire il bosone di Higgs, c’erano già arrivati gli antichi greci! Ciò detto, rimane il fatto notevole che, sulla base di un’immaginazione audace e geniale, quegli antichi pensatori hanno introdotto un’idea qualitativa, nuova, profonda, che a distanza di secoli ha trovato forti risonanze con la fisica moderna: e questo è un dato di fatto. In questo senso, un nesso analogo legherebbe Dante alla cosmologia relativistica.
Quanto alla visione proposta da don Pretto, per quanto interessante, mi pare non risolva il problema centrale dell’incoerenza dello schema solito del cosmo dantesco nel suo insieme (universo sensibile e universo angelico), che lui stesso concorda essere problematico e incoerente. Se il “Punto” circondato dai cerchi angelici del Canto XXVIII è localizzato nel Primo Mobile, come icona provvisoria della vera Luce divina della visione finale, allora dove si colloca quest’ultima? Qual è nella mente di Dante “la forma general di paradiso” (XXXI, 52)?
D’altra parte, non credo ci sia necessariamente contraddizione tra il valore teologico della proposta di Pretto e quella di uno spazio sferico. Se Dante nel Primo Mobile contempla con visione ancora imperfetta l’unica luce di Dio, come in lontananza, l’apparizione e la scomparsa del “Punto” e dei cori angelici manterrebbe l’analogia con le apparizioni e le scomparse delle anime dei beati nelle sfere celesti precedenti; e sarebbe coerente con il progressivo potenziamento della capacità visiva di Dante nel suo avanzare verso Dio.
Certo, si tratta sempre di ipotesi. E può sembrare strano che in questo dibattito entrino anche dei non addetti ai lavori, come matematici e fisici. Ma quando si ha a che fare con un Dante Alighieri forse è prudente non scartare a priori suggerimenti che possono venire da mondi diversi. Dante è il genio assoluto di un’epoca in cui i diversi piani della conoscenza non si stratificavano allo stesso modo in cui siamo abituati noi oggi. Persino l’intuizione immediata dello spazio non era assimilabile alla nostra, tanto che – come ha mostrato William Egginton – l’idea di uno spazio sferico era probabilmente più facile da intuire per un medievale che per noi moderni.
Fra gli intellettuali del nostro tempo i più presuntuosi sono forse quegli scienziati che guardano dall’alto in basso ogni altra espressione umana, convinti che le loro equazioni spieghino ogni cosa. Subito dietro di loro, con poco distacco, c’è il gruppone degli umanisti che snobbano la scienza senza nemmeno tentare di comprendere se essa possa contenere qualcosa di utile anche alle loro più ampie riflessioni.