Quante tavole rotonde abbiamo già ascoltato, e quanti articoli abbiamo letto, su un tema come “La società e il cristianesimo che cambia”? Eppure non è troppo tardi per ristabilire un certo equilibrio. Una delle idee fondamentali per capire il fenomeno religioso è il concetto di paradosso, elaborato soprattutto intorno alla metà dell’Ottocento dal filosofo danese Søren Kierkegaard. Per esempio: quando si osserva che il cristianesimo è in costante cambiamento e che al tempo stesso non cambia mai, non si fa un gioco di parole o un motto di spirito, ma si evoca una situazione ben reale.
Innanzi tutto, il religioso è primariamente il regno dell’interiorità, e fra interiorità e società esiste una tensione inevitabile (paradossale o dialettica che dir si voglia). Inoltre la religione richiede, come tanti altri fenomeni, di essere considerata sia in una dimensione orizzontale sia in una verticale. Ma il tragitto orizzontale non può essere visto nel modo reso popolarissimo dal filosofo austro-britannico Karl Popper, quando egli studia i procedimenti della scienza cosiddetta pura. Nella quale, come tutti sappiamo, nessuna teoria può essere definitivamente provata; le può accadere solo di essere prima o poi “falsificata” in modo da costruire la base per una nuova e migliore teoria; e così via, sempre in avanti. Ciò vale per quell’esperienza di lusso, diciamo così, che è la ricerca scientifica: dove esiste una comunità bene organizzata che funziona (almeno, nella maggior parte dei casi) come strumento di controllo obiettivo, e dove è plausibile una nozione costruttiva di progresso continuo; un progresso senza fine, che procede sempre verso il meglio.
Ma questa idea non si può applicare pienamente a nessuna altra area dell’attività umana; anche se pare a volte che le discussioni pubbliche sulla religione abbiano come riferimento un’idea di tradizione i cui concetti, riti, comportamenti ecc. possano essere nel corso del tempo falsificati, dunque indefinitamente migliorati, in un senso più o meno “scientifico” e progressista. Ma questa concezione puramente secolare è inadeguata al fatto religioso. La storia del cristianesimo ha le stesse caratteristiche degli altri tipi di storia – economica, giuridica, politica ecc. –: una serie di movimenti avanti e indietro, in cui i protagonisti più saggi ricercano di volta in volta il punto di compromesso che appaia più ragionevole. Insomma, una visione del cristianesimo come cambiamento implica una teoria moderata e realistica del cambiamento stesso come fenomeno generale.
D’altra parte, questa idea del cambiamento nel cristianesimo (e mutatis mutandis nelle altre religioni) lascia oscura l’altra metà di questo grande fenomeno, cioè la sua dimensione verticale: il cristianesimo che non cambia. Ma (e questa distinzione è cruciale) non è che non cambi per un testardo – o addirittura reazionario – rifiuto di evolversi, e di prendere atto di situazioni nuove; bensì, la sua immutabilità è la caratteristica oggettiva di un certo aspetto dell’essere – parola che qui si scrive con l’iniziale minuscola per non suonare troppo solenni e heideggeriani. Ma “essere” (con la maiuscola o la minuscola) resta un termine molto astratto; e se si potesse designare l’immutabilità cristiana con una sola parola, forse quella parola sarebbe “bellezza”. Come nella grande esclamazione di Sant’Agostino: “O bellezza così antica e così nuova!” (e non c’è bisogno di specificare Chi egli apostrofi in questo modo).
Riprendendo la questione del rapporto fra interiorità e socialità nel cristianesimo; per descriverlo c’è una parola che finora è restata in anticamera, e per cui la maiuscola in questo contesto è indispensabile: Amore. Parola che designa il ponte che unisce (che dovrebbe unire) l’esperienza interiore e quella sociale di ogni cristiano o cristiana. Peccato che essa sia oggi difficile da pronunziare, per la connotazione un po’ troppo vaporosa con cui secoli di discorsi edificanti e zuccherosi l’hanno ricoperta; e d’altra parte non si può semplicemente sostituirla con termini prosaici e tecnici, per quanto benemeriti, come “solidarietà”.
Quanto resta fra noi di discorso umano può sopravvivere soltanto se ci sforziamo di immettere nuova linfa nelle espressioni usuali (“dare un senso più puro alle parole della tribù”, come scrive il grande poeta Mallarmé). E basti, per chiarire, un’espressione colta al volo durante un’omelia, quando il predicatore citò una frase di un importante filosofo francese a cavallo fra Ottocento e Novecento, Gabriel Marcel: “Amare un uomo significa dirgli che lui non morirà mai”. Non si tratta di un’idea completamente nuova: quelli di noi che hanno avuto la fortuna di prestare occasionalmente qualche minuto d’attenzione durante le cosiddette “ore di religione” nei nostri buoni vecchi licei, potrebbero ricordare che il pieno concetto di amore del prossimo nella dottrina cattolica ha sempre riguardato primariamente la cura per la salvezza eterna di codesto prossimo. Ma detta così, questa precisazione risulta alquanto arida.
Tutto, o quasi tutto, infatti sta nel come una certa cosa vien detta, e quella frase di Gabriel Marcel ha una forza particolare. Ci sono tante maniere diverse per dire a qualcuno che lui (o lei) “non morirà mai”; così come ci sono tanti modi diversi di concepire questa idea. Ciò che importa, ed è estremamente difficile, è che questo sia “detto” (suggerito, evocato) come gesto amorevole; e basterebbe poi dire, più semplicemente: affettuoso. Questi gesti sono una vocazione tipica (non esclusiva) del cristianesimo. E non si prevede che cambino.
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Dall’intervento alla tavola rotonda organizzata dalla Casa dei Pensieri di Bologna, in occasione del conferimento al prof. Alberto Melloni (segretario della Fondazione per le Scienze Religiose in quella città), in riconoscimento della sua opera culturale e civica, della “Targa” intitolata allo scrittore Paolo Volponi.
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