L’incontro di Dio – “Eterno senza tempo, Sorgente della Vita che non muore” – con l’uomo avviene nel flusso del tempo, nell’incontro dell’uomo con l’altro uomo. È ciò che accadde al discepolo Stanisław Grygiel (1934-2023) nell’incontro con il suo maestro, Karol Wojtyła. Nell’ultimo tratto del suo pellegrinaggio, giunto ormai alla soglia dell’Eterno, l’anziano discepolo racconta – come solo un uomo vecchio e sazio di giorni sa raccontare – il significato straordinario della relazione personale che unisce maestro e discepolo, e quel discepolo a quel maestro che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza (ci riferiamo alla videoregistrazione della meditazione in tre parti: Stanisław Grygiel. Maestro e discepolo).
Commuovono la magnitudo di spirito e l’intensità di vita che sgorgano da questo suo testamento spirituale-carnale. In esso si squaderna l’esuberante circumincessio dei doni di fede, speranza e amore, ricevuti gratis e gratis restituiti (di dono in dono) e, in modo mirabile, il loro misterioso intreccio con l’esperienza dei trascendentali – il bene, il vero, il bello – mendicando, aspettando e ricevendo i quali quest’uomo dal cor inquietum ha ricevuto Colui che elargisce tutti i doni ed è presente in ognuno di essi, “ma che, nello stesso tempo, vi si trova sempre un po’ più lontano” –, peregrinando fino all’ultimo istante della sua vita verso di Lui.
La testimonianza del discepolo Grygiel è quella di un uomo integro, che riconosce di essere “spirito incarnato” e “carne spiritualizzata”: il peso specifico delle sue parole spirituali-carnali attesta una pienezza di vita ridinamizzata e ordinata nella signoria dello spirito. Cento anni fa, il filosofo tedesco Paul Ludwig Landsberg, geniale discepolo di Max Scheler, osservava nella distretta del suo tempo il verificarsi di un immenso iato reciproco tra lo spirito, che si fa beffe della vita, e la vita, che schernisce lo spirito. Oggi lo iato non si è ridotto, anzi. Per questo, la testimonianza di Grygiel è quanto mai vitale per l’uomo e, ancora di più, per i giovani di questo primo quarto del ventunesimo secolo.
“L’uomo è più antico della storia”, disse il poeta. Wojtyła insegnò al suo discepolo che non è il tempo ma l’eternità a sapere chi sia l’uomo, “chi io sia, che cosa io debba sperare e che cosa fare nella vita. È nell’eternità che si trova la misura del mio tempo, poiché è l’eternità, e non il tempo, a donarmi la verità e il bene”. Per questo, non è la società in un ben individuato “qui e ora” a conferire all’uomo la verità della sua identità.
Notiamo che questo insegnamento dell’uomo spirituale, che giudica ogni cosa senza essere giudicato da nessuno, giudica anche l’“errore di mistica” e la pessima dialettica, a suo tempo magistralmente descritta da Charles Péguy, tra la banda dei “curati clericali clericali”, che negano “il temporale dell’eterno”, e la banda dei “curati clericali anticlericali”, che negano “l’eterno del temporale”. I “fondati di potere dell’eterno” hanno misconosciuto, disprezzato il temporale e, per tutta risposta, il temporale ha schernito, disprezzato l’eterno. Quanto alla mistica spiritualoide (docetica) dei primi, che negano il temporale dell’eterno, essa è ora molto più perniciosamente anti-cristiana di allora.
Entrando nello “sconfinato paese” che si dipana tra i suoni creati dal maestro, il discepolo incontra l’unico Maestro, Cristo (Mt 23,8: “Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”). Ascoltando Lui, “in questo paese devi tacere e cambiare la tua vita”. Poiché ha conosciuto un vero maestro, che lascia intravvedere in se stesso “l’alterità della Trascendenza”, Grygiel ci mette in guardia dagli insegnamenti ambigui degli “anti-maestri”, che deformano negli uomini “la visione dell’universo e dell’uomo stesso”, e anche di coloro che, all’interno della Chiesa, piegandosi più o meno consapevolmente alle opinioni dell’esistenzialismo ateo e sostituendo sconsideratamente i loro discernimenti al discernimento che Dio ha fatto nell’eternità nei riguardi dell’uomo, “spengono negli uomini la fiamma con cui parla il ‘Sono Colui che sono’, presente a tutti”. Egli, inoltre, chiarendo il fatto che i valori e le virtù si comportano come impazziti quando cessano di essere eventi della verità e del bene, ci mette in guardia dalla figura opaca dell’anticristo, che appare “nella follia dei valori e delle virtù”.
Nel suo cammino con il maestro verso la Sorgente, procedendo in senso opposto alla corrente e ritornando al “Primo e Ultimo Amore”, Mistero del Principio e del Fine, il discepolo impara che il dono della libertà proveniente dalla verità è arduo e pericoloso, perché esige da lui la testimonianza, cioè il martirio, resa alla “misericordiosa Alterità” del Donatore che nell’eternità lo aspetta. Non ogni uomo è disposto a compiere questo pilgrim’s regress in comunione con un maestro. L’uomo, isolato dagli altri uomini e alienato da sé stesso, è schiavo del potere (del male). Egli, di per sé, tradisce l’amore vero buono bello che pure il suo cuore inquieto ha sperato incontrato e riamato. Oscar Wilde scrisse: “Tutti gli uomini uccidono ciò che amano”. Questa proposizione, carica di una verità antropologica fondamentale, è certo più agostiniana e più cattolica di quanto appaia all’odierna banda di curati clericali clericali, di benpensanti (cripto)pelagiani. Agostino (e Landsberg con lui) converrebbe con Wilde: “Tutto il male dalla mia libera volontà, tutto il bene dalla Tua Misericordia e Grazia”.
La comunione reale, qui e ora, delle persone reali (non esistono persone potenziali, Robert Spaemann docet) è già presente – incoativo, sì, ma reale – avvenimento di liberazione delle persone, caparra della piena liberazione escatologica nel Regno delle Persone, che è Communio Personarum. “Roba” (si fa per dire) dell’altro mondo, in questo mondo. “Il mio regno non è di questo mondo”, rispose Gesù al procuratore romano (Gv 18,36). Disse anche: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,20-21).
Chi orienta il proprio peregrinare secondo il “realismo del mistero” rimane saldo nell’ottimismo di una fede paziente provata nelle tribolazioni e di una speranza piena di immortalità, radicata nella fede dei Padri – e in quella del Santo Padre Giovanni Paolo II. Così rinasce ogni giorno di nuovo la mendicanza dell’uomo che non sogna “sistemi così perfetti che nessuno avrà bisogno di essere buono” (Thomas S. Eliot), ma che canta e cammina come pellegrino senza patria in questo mondo ma non, per questo, ramingo senza meta. Il suo canto, press’a poco, è questo: “C’è bisogno di Qualcuno che ci liberi dal male, / perché il mondo, tutto intero, è rimasto tale e quale” (Claudio Chieffo).
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