Paolo Del Debbio ha scritto un libro di filosofia facendone un romanzo. Oppure si potrebbe dire che ha scritto un romanzo riflettendo su concetti filosofici. Non saprei dirvi quale delle due affermazioni è più corretta. Per me lo sono entrambe. Ufficialmente comunque per lui, giornalista, conduttore televisivo, professore, studioso di etica e di economia medievale, scrittore di numerosi libri dove economia, storia e filosofia si intrecciano, Il filo dell’aquilone (Mondadori, 2022) è il primo romanzo.
Romanzo circolare lo definirei. Perché narra una storia che ha un inizio, uno svolgimento, una fine ma non secondo una linea retta quanto piuttosto dentro un cerchio all’interno del quale si compie, si dipana e si risolve la storia del protagonista, Astorre Cantacci. Viene voglia di prendere in prestito, modificandola, la strofa di una canzone di Venditti, “Certe storie non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Fa un giro immenso anche la vita di Astorre, nato alla fine della seconda guerra mondiale e consegnato dalla mamma indigente alle suore di un convento che a loro volta lo affidano per l’adozione ad una famiglia che chiunque si augurerebbe di avere.
Bello, colto, benestante, Astorre potrebbe mietere un successo dopo l’altro, e, infatti, sembra avviato ad una brillante carriera e al matrimonio con la più bella ragazza del suo corso di laurea. Ma la sua vita non è, appunto, una linea retta, non risponde al cliché dell’avvocato che fa soldi e scala le gerarchie sociali. Perché, fin da bambino, da quando perde per una malattia inesorabile il suo più caro amico, si interroga, inquieto, sul senso della vita e non riesce a togliersi il macigno del dolore della perdita che si sedimenta nell’anima anche quando vive momenti di serenità. È nelle riflessioni che Astorre va coltivando di pagina in pagina che si situa il “cuore filosofico” del romanzo di Del Debbio. È qui che emergono le domande fondamentali che ogni uomo si fa: come si sta davanti al male del mondo? Che rapporto c’è fra la libertà e predestinazione? Cos’è quel senso di infinito che ognuno di noi si porta dentro?
Niente paura comunque, non serve una laurea in filosofia per scorrere il romanzo di Del Debbio, la lettura scivola via piana ed è godibilissima. Certo, è un libro che fa riflettere e lo fa attorno a descrizioni spesso poetiche, come quella che dà il titolo all’opera (“tutti e per tutta la vita cerchiamo il modo di volare come gli aquiloni e tutti, per tutta la vita, cerchiamo dove ancorare il filo che ci permette di volare…”) o quella che descrive la delusione di un ancor giovane Astorre quando scopre che il semplice ma seducente volo delle farfalle risponde ad un disegno ben determinato e non è il frutto di una totale libertà come lui credeva fosse.
Il cerchio della vita di Astorre si chiude quando il travaglio che vive e che lo porta a compiere scelte di rottura si risolve in un incontro casuale con uno sconosciuto. Un evento che accade nel momento del buio totale della sua anima e chi si rivela un improvviso punto di luce in grado di illuminare le sue giornate e di ricomporle mettendo al proprio posto tutte le tessere di un puzzle che si era andato disfacendo. L’aquilone caduto a terra, rimasto a lungo inanimato, trova il punto cui ancorarsi di nuovo e torna a volare in modo tale che Astorre possa avere risposta a tutte le domande e trovare quella pace che ha inseguito per tutta la vita.
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