Per quanto riguarda invece le relazioni tra gli Alleati e l’Europa, Piffer mette in luce il peso immane che gravò sul SOE, che più di ogni altra organizzazione si trovò coinvolto nella complessità politica ed etnica del continente europeo, e che inviò migliaia di agenti nella Spagna di Franco come sulle montagne della Grecia, nei piccoli villaggi della Serbia come sulle colline dell’Italia settentrionale per fornire armi ai movimenti partigiani, negoziare con chi cercava la pace separata e rovesciare governi nemici, ma rileva anche un’ambiguità di fondo: mentre attraverso il SOE gli inglesi cercavano di controllare le diverse organizzazioni resistenziali nel Continente non solo con bombe, sabotaggi e paracadute, ma anche con le leve della guerra politico-economica, del mercato nero e di operazioni in Paesi neutrali, “allo stesso modo i movimenti partigiani potevano utilizzare gli inglesi per combattere le proprie guerre ideologiche o etniche”, come appunto accadde nei Balcani. Ma anche l’Unione Sovietica, spingendo i partiti comunisti occidentali a creare alleanze di liberazione nazionale, finì, come una sorta di apprendista stregone, col cambiarne la natura e col rendere più sottile il legame che intratteneva con questi.



È però soprattutto il terzo nodo, quello della natura della seconda guerra mondiale, che risulta problematizzato in questo excursus che, attraverso puntuali documentazioni, ci spinge a superare ogni illusione romantica di una guerra che vede dalla parte antifascista unicamente le forze del bene. Il libro di Piffer ci guida a uscire con realismo dalle narrazioni mitiche e retoriche per entrare dentro a una visione critica della storia, che è poi il compito della storia tout-court. Non si tratta certo di negare che la Seconda guerra mondiale sia stata un imponente sforzo collettivo per sconfiggere la piaga del nazismo e dei fascismi, né di negare l’indiscutibile eroismo di molti tra i protagonisti di quella lotta, ma dentro a questo, come in una scatola cinese, l’autore ci mostra l’emergere di altre guerre, altrettanto feroci. Scrive Piffer: “Una prospettiva comparativa sui movimenti di resistenza mostra che in Europa [la guerra] fu una sovrapposizione di diversi conflitti etnici, nazionali e ideologici all’interno di una grande guerra antinazista, piuttosto che un mero conflitto bilaterale tra fascismo e antifascismo. In quegli anni in Jugoslavia si combatterono almeno tre guerre: quella antifascista contro i tedeschi; il conflitto etnico tra serbi, croati e minoranza musulmana; le lotte ideologiche condotte dai partigiani comunisti contro tutti i loro avversari”. E così anche in Grecia (comunisti contro non comunisti e monarchici contro repubblicani), in Francia (destra nazionalista contro repubblicani) e soprattutto in Polonia, dove “l’Armia Krajowa [Esercito nazionale clandestino] ha certamente combattuto due guerre allo stesso tempo: contro i tedeschi e contro i sovietici. La sua catastrofica distruzione nel 1944 fu il risultato diretto di questo doppio conflitto”. Sono tutti esempi, pur non sempre controllabili dalle tre potenze alleate, di come “i boschi e le montagne dove i partigiani combattevano eroicamente contro i tedeschi diventarono così anche i campi di battaglia in cui i tre Alleati si sfidarono in una guerra per procura per forgiare l’Europa del dopoguerra”.



L’ultimo capitolo è dedicato all’Italia e ai rapporti tra i Servizi anglo-americani, il CLNAI e i governi Badoglio e poi Bonomi. Nel nostro Paese, gli agenti Alleati ebbero un ruolo fondamentale negli sviluppi del movimento partigiano e proprio la fiducia accordata dagli Alleati al CLNAI e ai gruppi operativi in montagna consentì nella fase finale della guerra, dopo l’apparente tradimento del lungo inverno del 1944, sempre più massicci rifornimenti alla Resistenza senza troppe discriminazioni tra gli orientamenti politici, evitando così spaccature importanti all’interno del movimento resistenziale e consentendo, a guerra terminata, una transizione relativamente indolore verso la democrazia.



Una piccola osservazione finale: la rilettura dei fatti a noi più noti all’interno di una dimensione strategica su scala europea ci consente di meglio comprendere, al di là di ogni narrazione retorica, che non avrebbe potuto esserci una Resistenza senza la sconfitta sul campo dei tedeschi da parte degli eserciti Alleati, ma allo stesso tempo questa visione a tutto campo sui diversi scenari del secondo conflitto mondiale può meglio farci apprezzare il significato politico della partecipazione attiva di una nuova leadership che, formatasi sul terreno della lotta antifascista, fu pronta a governare il difficile dopoguerra conducendo l’Italia al di là delle macerie di un Paese sconfitto. Una storia su cui riflettere nel settantesimo della morte di De Gasperi.

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