L’uomo non è stato creato per il gioco, ma per le attività serie. Ce lo dice in modo chiaro Cicerone: “Noi non siamo stati generati dalla natura in modo da sembrar fatti per il gioco e lo scherzo, ma piuttosto per la serietà e per occupazioni più importanti e più grandi. Possiamo lasciarci andare talvolta al gioco e allo scherzo, ma, come è il caso del sonno e del riposo, solo quando avremo abbastanza adempiuto i doveri gravi e importanti” (De officiis I 103).



Il padre Dante è anche più perentorio: “Fatti non foste a viver come bruti, | ma per seguir virtute e canoscenza”. Delle due parole che Cicerone usa per indicare l’attività ludica (ad ludum et iocum) la prima (ludus) indica il gioco nel suo aspetto organizzato e istituzionale (ludus è il gioco d’azione, che si realizza anche in occasione di cerimonie pubbliche o religiose) e la seconda (iocus) il motteggio, la battuta di spirito. Ludus ha anche un altro valore, quello di scuola elementare, nella quale i bambini imparano giocando, e magister ludi è il maestro di scuola.



Progressivamente il significato dei due termini ludus iocus finisce per sovrapporsi, e il primo diventa inutile, tanto da sparire nelle lingue romanze, dove oggi è presente solo in derivati propri della lingua colta (come ludicoludoteca). Rimangono alcuni derivati come illudere e deludere, che hanno assunto il valore negativo di “prendersi gioco di una persona (fino a ferirla nel sentimento)”: nella stessa sfera anche alludere,  “far balenare un’idea”. Il valore fortemente negativo è stato assunto già in epoca antica, come si vede dal derivato ludibrium “oggetto di scherno, zimbello”.



Nelle lingue romanze rimane solo iocus, continuato come gioco in italiano, juego in spagnolo, jeu in francese, joc in romeno e così via. La parola è produttiva in latino e ha diversi derivati: iocari “giocare”, iocosus “giocoso”, iocator “giocatore”, ioculator, da cui il francese jongleur “menestrello”, e altri. Nel latino tardo compare compare iocale “oggetto bello e costoso”, da cui l’antico francese joel (moderno joyeau), ripreso in italiano in gioiello, spesso abbreviato in gioie “ori, monili” (nulla a che fare con gioia ‘letizia’ che ha tutt’altra storia).

Echi di iocus iocari si hanno in lingue europee, dall’inglese (to joke “scherzare” joker la matta nelle carte) al lituano (juõkas “scherzo”). Ma al di fuori del latino troviamo termini diversi per indicare il passatempo e l’attività ludica: parole connesse col termine che significa “bambino” (greco paízō “io gioco” derivato da paîs “bambino, ragazzo”), o parole che evocano la vivacità nei movimenti (inglese play, in origine “muoversi velocemente, saltare”; tedesco spielen “giocare”, in origine “girare intorno”; lituano žaiste “giocare”, in origine “saltare”) e la danza (russo igrat’, in origine “danzare” e oggi “giocare”: stessa evoluzione anche nei termini corrispondenti delle altre lingue slave).

Interessante la frequente connessione fra l’idea del gioco e la pratica di uno strumento musicale: francese jouer du cor e inglese to play the horn “suonare il corno”; rumeno joaca “suonare”; armeno xałal “giocare”, ma anche “suonare”. L’arte, e in particolare la musica, è intesa qui come un’attività ricreativa, in quanto distende lo spirito e lo ritempra dalle occupazioni gravose.

In italiano gioco ha trovato modo di inserirsi nella lingua della meccanica (il gioco come spazio di movimento tra parti di un meccanismo) e della scienza (in matematica la teoria dei giochi).

L’isolamento di iocus è anche dovuto al fatto che il latino ha dato un valore speciale a una radice indoeuropea *yek– che in origine vale genericamente “parlare, pronunziare delle frasi”, come si vede soprattutto dagli usi germanici (antico tedesco jehan “parlare, dire”) e celtici (gallese iaith “lingua”). Il latino ha conferito alla radice il valore di “gioco di parole, facezia”. In altre lingue dell’Italia antica la radice ha sviluppato un significato molto diverso, come in umbro dove iuku vale “preghiere”. Anche in India la radice è usata per indicare la supplica (sanscrito yācati “egli domanda, supplica”, yācña “preghiera”). In tedesco troviamo derivazioni che si sono molto allontanate dall’uso originario: Beichte (da bi-ih-ti) è la confessione e Gicht (da gi-ih-ti) è la gotta, malattia che si riteneva causata dal troppo parlare e dall’infervorarsi nella discussione. Come spesso avviene, le lingue ci mettono di fronte a evoluzioni impreviste e imprevedibili.