Vigeva nell’università dei “tempi oscuri”, nel Medioevo, una regola aurea per l’igiene della discussione e dell’avanzamento dialogico verso la Verità. Punto fermo della disputatio, una pubblica tenzone dialettica, era l’obbligo assoluto di non distorcere l’opinione dell’avversario, bensì di obiettare alle sue tesi rispettandone fedelmente gli assunti. Altro che dissing o certi sgangherati talk show dei nostri giorni “illuminati”. In questo genere di dibattito Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, santi e dottori della Chiesa di là da venire (il domenicano acquisì l’aureola nel 1323 e il “dottorato ecclesiale” nel 1567, il francescano fu canonizzato nel 1482 e “dottorato” nel 1588) erano campioni indiscussi all’Università di Parigi nel bel mezzo del XIII secolo. Spirarono nello stesso anno (1274) e dunque l’anniversario in mortem è da sempre gemello: quest’anno si celebrano i tre quarti di millennio dalla loro scomparsa.
Un convegno internazionale di tre giorni sulla coppia serafico-angelica ed una pregevole mostra alla Biblioteca Apostolica Vaticana solennizzano a Roma la ricorrenza. L’esposizione Il libro e lo spirito – allestita nella Kerkorian Hall della Bav, curata da Stephen Metzger e suor Maria Panagia Miola (aperta fino al 14 dicembre) – consta di 52 pezzi di inestimabile valore storico-culturale: si va da due straordinari manoscritti di pugno di san Tommaso, che aveva un’ortografia illeggibile di cui si dolevano i suoi allievi, a una rara (ma in realtà qui tutto è raro e di norma inaccessibile se non a studiosi, dunque l’occasione è prelibata) edizione delle bonaventuriane Collationes in Hexaemeron, il testamento spirituale del francescano caro a Joseph Ratzinger. Immaginare che su questi volumi si sono affaticate intelligenze così eccelse, quelle degli autori in primis, ma anche quelle della lunga teoria di studiosi che nei secoli li hanno consultati, commentati e approfonditi, è causa d’una commovente vertigine che pervade il visitatore. Qui, in un refrigerante bagno di umiltà, si comprende appieno, visibilmente, tattilmente, la sensazione di essere dei nani sulle spalle di giganti.
La ricorrenza dei 750 anni dalla morte di questi due fari tuttora attivi contro il naufragio della ragione e della fede, parla direttamente a noi contemporanei. Hanno lottato con le armi della loro intelligenza e del loro amore a Cristo contro nemici esterni alla Chiesa e opposizioni ecclesiastiche interne; in un tempo in cui la spinta propulsiva del monachesimo s’era indebolita, anche per il nuovo contesto socio-economico europeo (le devastazioni barbare che avevano favorito la stanzialità abbaziale erano da tempo cessate e la civiltà europea rifioriva, grazie proprio ai monaci), Francesco e Domenico compresero che l’annuncio cristiano andava portato dentro il nuovo dinamismo delle città.
Peraltro gli ordini mendicanti risposero anche ad un avvertito bisogno di purificazione delle strutture ecclesiali, appesantite dal potere e dai vizi umani. Bonaventura e Tommaso operarono nella città universitaria più importante al mondo, Parigi, dove le pulsioni ideologiche erano incandescenti, dove l’ultimo grido filosofico era Aristotele, giunto in Occidente nella versione, materialista e di fatto atea, di Averroe. Qui i nostri campioni differenziarono le loro posture intellettuali: “Non enim intendo novas opiniones adversare, sed communes ed approbatas retexere” diceva il frate di Bagnoregio: alla larga da Averroe ma pure da Aristotele, abbiamo già, nella nostra fede, tutto ciò che serve.
Il cristocentrismo di Bonaventura – nel frattempo diventato superiore dell’ordine francescano – si approfondì nella riflessione sull’evento cruciale delle stimmate concesse dal Signore al Poverello d’Assisi a La Verna. Il suo fu un “pensare crocifisso”, che tanti tesori ha guadagnato alla teologia ed alla storia dell’arte. Tommaso invece – sulla scia combattiva del fondatore, san Domenico – scelse di affrontare di petto la sfida averroista e confutò con pazienza e acume gli errori del pensatore musulmano, arruolando il così depurato Aristotele nelle file di una filosofia aperta a Dio e componendo un inno alla ragione di cui tuttora godiamo i frutti.
Una gratitudine immensa è dovuta a questi due pilastri del pensiero e della fede, “candelabri splendenti nella casa di Dio” (Sisto V), che hanno fecondato i secoli successivi praticando la fatica del conoscere e procurandocene la gioia. Acque dissetanti nel deserto odierno.
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