Enrichetta Blondel, moglie di Alessandro Manzoni, muore “consumata da una malattia di languore” il 25 dicembre 1833, alle otto di sera. Giulia Beccaria, madre di Alessandro, qualche giorno dopo scrive alla nipote Vittoria:
“Iddio ci ha tolta quell’angelica creatura, che ci aveva data nella sua misericordia per noi. (…) Il povero desolato tuo padre è rassegnato ai voleri d’Iddio, ma immerso nel più profondo, e oso dire inconcepibile dolore; e noi?”
È sulla soglia di questo “inconcepibile” che si fermano i documenti storici e per penetrare nella tragedia vissuta dallo scrittore lombardo – che si rinnoverà nel settembre del 1834 con la morte della primogenita Giulia e poi ancora di un’altra figlia giovanissima, Cristina, nel 1841 – si può procedere solo “osando”, come sua madre, un’immedesimazione essa stessa drammatica, che ne attraversi e abbracci tutta la sofferenza. Perché il dolore, come riconosce lo stesso Alessandro scrivendo a Leopoldo II, non si lascia “immaginare” e se ne coglie la vera natura solo quando lo si “tocca” direttamente.
“Confesso ch’io avevo altra volta creduto compatir degnamente agli altrui, e mi pareva che dal sentimento dell’amore fosse agevole immaginare il sentimento della perdita; ma veggo ora che la sventura è una rivelazione tanto più nuova quanto è più grave e terribile.”
Un evento, dunque, la “sventura”, che travolge inaspettato, che le esperienze passate, ciò cui ci si è affidati fino a quel momento non riescono a prefigurare e tanto meno, quando accade, ad arginare. È qualcosa che sovrasta e davanti al quale ci si ritrova improvvisamente soli e indifesi – tanto eccede la misura della nostra vita abituale – e cui solo un’altra “rivelazione”, la scoperta di una energia di bene e di amore altrettanto nuova e reale, può far fronte.
Dalla solitudine della sua tragedia – in un appartarsi anche fisico che arriva al limite dei doveri sociali e paterni – Manzoni interroga Dio stesso alla ricerca di una risposta che acquieti la ragione e gli consenta di vivere; un dialogo teso e drammatico le cui tracce peraltro si riducono a poche lettere e ai due abbozzi di un inno – Natale del 1833 – nei quali le parole lambiscono appunto la “concepibilità” stessa di quel dolore, se esso rientri o invece addirittura smentisca il piano provvidenziale divino. Non a caso Riccardo Bacchelli in un suo saggio lo definisce un “alterco con Dio” e ne avvicina la natura al confronto tra Giobbe e il Dio del Vecchio Testamento; e lo stesso Manzoni vi intravede la follia di una rivolta contro il cielo.
“Cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che sono due deliri: negar la Provvidenza o accusarla.”
È su queste poche fonti documentarie che Mario Pomilio (1921-1990), forse il più manzoniano dei nostri scrittori moderni, costruisce il proprio romanzo nel 1983 dandogli lo stesso titolo dell’inno, con l’intento di comprendere il percorso di Manzoni all’interno del suo dolore. In lui infatti ritrova le proprie domande e quelle dell’uomo moderno, e anche l’occasione per mettere alla prova la capacità di testimonianza pubblica della fede.
A rendere originale il lavoro dello scrittore abruzzese, non solo le sue capacità di filologo e di narratore, ma la sua stessa concezione di romanzo come sguardo che attraversa “l’intero spessore della nostra umanità” e che al fondo si configura, sono sempre sue parole, come una sorta di “esegesi del possibile”, che legge la storia alla luce delle possibilità della Grazia ed esplora la realtà per svelarne la vera consistenza.
Che poi del grido dell’uomo – eco di “maledizioni, bestemmie pianti… ripetuta per mille labirinti” – e delle “possibilità di Grazia” egli voglia sottolineare la natura ultima di mendicanza è ben evidenziato nella strofa di Baudelaire, tratta dai suoi Phares, posta in epigrafe al romanzo.
“Perché è questa, Signore, la testimonianza più vera
che noi possiamo offrire della nostra statura,
il singhiozzo ardente che rotola da un’età all’altra
e viene a morire ai bordi della vostra eternità.”
A questi versi fa immediatamente riscontro, nelle parole di Costanza Arconati, nobildonna lombarda vicina alla famiglia Manzoni, la testimonianza di Enrichetta, citata nelle prime pagine del romanzo, che indica pur in modo indiretto l’orizzonte, quello della fede, davanti al quale il libro pone la riflessione del personaggio Manzoni.
“Quale forza di consolazione non ha saputo ricavare dai suoi sentimenti religiosi! Mi hanno riferito che era talmente staccata dalla vita, da dire che, se avesse potuto riprendersela, non avrebbe voluto. Eppure amava talmente i suoi figli e il marito! Perché quello che avrebbe trovato era molto più bello: ditemi voi se con una fede così è difficile morire.”
Il resto dei resoconti della Arconati ai propri confidenti rasenta invece il pettegolezzo, e proprio attorno all’invenzione di una lunga lettera di Giulia Beccaria all’amica Mary Clarke, con la quale si propone di rispondere alle voci sull’insensibilità di suo figlio, ruota lo sviluppo del romanzo. Ad essa Pomilio affida il compito di raccontare i sentimenti che si susseguono nel protagonista e come quella sua supplica
“per tal via diventava strazio e contesa, implorava un segno, una risposta, domandava, dico, al Signore, per smarrite vertigini, di lasciare il suo mutismo, di manifestargli la sua presenza.”
Tra gli elementi di finzione utilizzati nella stesura della lettera, anche un tentativo di riscrittura del Giobbe biblico e una rielaborazione della Colonna infame, che accompagnano il passaggio dalla riflessione sui dolori individuali a quella sul male che segna la condizione umana. I due abbozzi dell’inno vi ritornano invece continuamente a fare in qualche modo da filo conduttore. Alle loro parole, a quelle “frasi mozze disseminate a distanza su grandi fogli altrimenti bianchi, sì da assomigliare a lagrime rapprese”, si riconducono tutti i i pensieri del Manzoni, con i loro scostamenti anche minimi e le loro tensioni poetiche frammiste a quelle esistenziali.
“Si contempla il Signore smarriti di non riconoscerlo e la voce, benché repressa, esclama a un tratto: ‘Tu sei terribile!’ Un azzardo? Una tentazione? Un grido temerario? Io non so se ci sia peccato in quel che sto per dire: ma non vorremmo tutti un Dio che fosse a misura della nostra fede?”
Il riferimento è al drammatico verso iniziale dell’inno – “Sì che tu sei terribile” – che nel primo abbozzo evolve dapprima nella domanda angosciata “Ti vorrei dir: che festi? / Ti vorrei dir: perché?” e, più avanti, nello stesso grido di Giobbe a “Il Dio che me la toglie / Il Dio che me la diè”. Una tensione che infine sfocia nell’invocazione:
“Quando il Signor verrà?
Perché ci amava!
Cara!
(…)
Quando il Signor verrà?”
Un’implorazione che suona come un abbandono stremato, esaurite tutte le rimostranze e le interrogazioni; come se la ricerca di qualcosa all’altezza del dolore che sta vivendo si riflettesse improvvisamente nell’immagine concreta dell’amore di Cristo, e in essa si sciogliessero “gli sconcerti metafisici di questo prigioniero della fede che non si rassegna a separare il divino dalle cose umane”.
“Morrò s’io non ritorno
Culla beata, a te”
Un Dio che assume la debole carne dell’uomo, un Dio bambino che se ne assume tutta la sofferenza e davanti al quale Pomilio, alla fine del romanzo, immaginando una lettera all’amico Fauriel, fa scrivere al Manzoni:
“Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d’amore? E in verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio.”
Un passo decisivo, in cui anche la “rassegnazione”, che lungo il romanzo aveva sempre rimandato all’inevitabilità della sconfitta e della rinuncia alle proprie domande, assume invece – nello sguardo dell’incarnazione – il valore di una partecipazione amorosa, una relazione con Dio nella quale l’uomo può portare tutto di sé.
E in questo si può forse ritrovare anche il motivo centrale del romanzo di Pomilio, quasi egli volesse sollevare il personaggio Manzoni dal peso dell’azzardo di cui si accusa, valorizzando il coraggio e anche l’estrema lealtà di un percorso che non nasconde le proprie contraddizioni e, insieme, non si arresta davanti alle smentite che l’attesa di Lui sembra subire.
Perché se questo “Dio disarmato”, “in una cuna ascoso”, accetta di essere sconfitto dalla sua stessa creatura e consente che l’efficacia della propria missione di salvezza dipenda dalla decisione dell’uomo, dalla sua libertà, significa che in Lui ogni istante e ogni evento non andrà perso e può assumere il valore di “rivelazione”, scoperta “di compassione e d’amore” che permette all’uomo di vivere e affrontare anche la “sventura”.
Così anche il “cecidere manus”, il cadere sconsolato delle mani nella chiusa del secondo abbozzo, ammette, certo, la disfatta dell’uomo, del suo tentativo di rappresentare e di svelare la realtà e il suo mistero, ma allo stesso tempo rinnova il proprio abbandono all’amore di Dio.
Ed è significativo che questo secondo tentativo del Manzoni si appoggi su una doppia analogia con la condizione umana: quella del Dio bambino – “E tu pur nasci a piangere” – e quella di Maria, che si trova a patire una passione straziante seguendo la croce del figlio.
“Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte
Ti seguirà sul monte
E ti vedrà morir.”
Un’analogia nella quale Pomilio prefigura il compito affidato a ogni cristiano di accompagnare la croce di chi soffre con le forze della propria povera fede, essendo – ognuno – la compassione e l’amore di cui l’uomo ha bisogno, ognuno, il volto stesso di Cristo all’altro.
Come aveva già scritto a metà degli anni 70:
“il nostro è probabilmente un tempo che si rifiuta al sacro, ma resta capace di arrendersi alla santità; (…) è divenuto meno sensibile al cultuale, al devozionale, alle espressioni rituali della religiosità, mentre resta disponibile di fronte alla testimonianza vissuta, con quanto vi è connesso in fatto di carità, e di dispendio di sé, e di rischio in pro degli altri. Le sue prove comunque esso preferisce cercarsele lì: non a livello speculativo, ma nel mistero dei carismi. E nel concreto dei carismi. Come sempre.”
Un compito nel quale si riflette il metodo stesso dell’incarnazione; ogni volta come davanti al Natale che riaccade, all’evento della Sua vicinanza.
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