Siamo tutti d’accordo che una malattia vastamente contagiosa come il coronavirus è un male; ma probabilmente ben pochi oggi, nella nostra civiltà orgogliosamente laica, sarebbero disposti a considerarla come un derivato del Male (ciò susciterebbe reazioni contro i “residui medievali” eccetera). Giochiamo allora fino in fondo, cioè fino a che non si va a urtare contro un muro, il gioco del laicismo.
Una pandemia è uno di quei fatti sconvolgenti che ci pongono di fronte all’elemento irrazionale nella nostra vita – quell’elemento che noi, cittadini del progresso, siamo allenati a ignorare; salvo personificarlo nelle patologie (esistono alcune persone “irrazionali”, da tenere a bada come utenti psichiatrici); o – in stile neo-marxista – esorcizzarlo con un’etichetta condannatrice, che in fondo non vuol dir nulla e serve solo a scomunicare una vasta parte dei grandi pensatori della modernità: “irrazionalismo”.
Un fenomeno come il virus, invece (lasciamo stare la terminologia scientifica), ci sbatte per così dire in faccia quello di cui in verità avremmo dovuto essere consapevoli da sempre: la vita di tutti noi è immersa nell’irrazionale. Non lasciamoci ingannare, a questo proposito, dalla dolcezza di certe evocazioni, come nei famosi versi della Tempesta shakespeariana: “Siamo intessuti della materia / di cui son fatti i sogni; e la nostra piccola vita / è cinta tutt’intorno dal sonno”. Parole come queste evocano qualcosa di fondamentalmente incontrollabile, dunque in ultima analisi la morte, dunque in estrema analisi il nulla.
Se l’irrazionalismo è solo un flatus vocis, il nichilismo d’altra parte è un movimento di pensiero (un pensiero-esperienza) che, almeno dalla crisi dell’Illuminismo in poi, continua a segnare la nostra percezione del mondo.
Per esempio, Leopardi. Il quale inaugura la modernità poetica italiana, ma viene troppo spesso frainteso come il campione di un’idea un po’ mummificata della Poesia con l’iniziale maiuscola. Leopardi, che in realtà è il protagonista di uno dei più grandi e tormentati dialoghi, interni all’opera di un singolo autore, fra esperienza lirica e viaggio filosoficamente intenso dentro il nichilismo (altro che “pessimismo”!).
Eccoci dunque al passaggio: per sviluppare un’esperienza matura della vita (al di là dei tecnicismi intellettuali) il nichilismo, prima di essere criticato, dev’essere attraversato. Ci sono attraversamenti radicali, per esempio quello del grande filosofo Emanuele Severino (1929-2020), il quale ci ha spiegato e rispiegato che il nichilismo è l’atmosfera di tutto il pensiero occidentale da Platone in poi (affascinante ma pericolosa idea: si potrebbe dire che, se tutto è nichilismo, niente lo è). Meglio allora gli attraversamenti più esistenzialmente concreti, e immersi nei fenomeni vitali.
Come il folgorante romanzo saggistico-autobiografico Un uomo finito (1913, fortunatamente ripubblicato in questi anni) di quel grandissimo intellettuale che fu Giovanni Papini (1881-1956). E quel libro appare oggi come un precursore di opere quali il Sommario di decomposizione (1949) di Emil Cioran (1911-1995): pensatore aforistico romeno, ridotto ad apolide e divenuto poi grande prosatore nella sua lingua non-materna, il francese (esperienze così, preparano in un certo senso al nichilismo). Una sola citazione, da questo conturbante Sommario di decomposizione: “È più che legittimo figurarsi il momento in cui la vita passerà di moda, in cui cadrà in disuso come la luna o la tubercolosi dopo gli abusi romantici: essa andrà a coronare l’anacronismo dei simboli denudati e delle malattie smascherate; tornerà a essere se stessa: un male senza attrattive, una fatalità senza splendore”.
Siamo tornati, dunque, al virus. Con quel tocco di cinismo (la tubercolosi passata di moda) che spesso si accompagna alle descrizioni nichilistiche e le rende ostiche ai cultori dei discorsi edificanti e delle “magnifiche sorti e progressive” su cui già ironizzava Leopardi. Ma gli intellettuali e umanisti debbono affrontare il rischio di non essere sempre popolarissimi (come già notava José Ortega y Gasset), se non vogliono restare quello che oggi troppo spesso sono: figure anacronistiche e alquanto polverose; in attesa che si affermi un tipo di intellettuale più adatto al terzo millennio.
Anche il nichilismo, intanto, è cambiato: entrando nel XXI secolo, si è lasciato alle spalle i panorami rosseggianti e un poco enfatici del Novecento post-nietzschiano. Ha acquistato, diciamo così, un color grigio-cenere, è diventato lo sfondo di una rassegnazione che si tende a designare con i termini della civiltà pre-cristiana: stoicismo, fatalismo. Se si è persa l’idea di un grande Male in agguato (vista come una forma di superstizione), si è al tempo stesso smarrita la fiducia in un grande Bene, in un disegno provvidenziale; e così si resta sempre nell’ambito del nichilismo.
In che modo, allora, si può tentare di andar oltre? Sviluppando la riflessione sul parallelismo fra questi mesi “virali” e il tempo di Quaresima, si intravede l’idea che la traversata della Quaresima possa essere anche un modo di immergersi senza riserve ed eufemismi nel flusso oscuro del nichilismo, per poi emergerne preparati alle “cose nuove” (Ap 21, 5).