Se ne è andato in un modo scomposto, lui che era compostissimo, preciso, sempre molto controllato. Immaginarselo scaraventato per terra, investito da un’auto, fa veramente impressione. Ma i grandi uomini se ne vanno anche in modo stupido e totalmente imprevisto, quasi come se una regia misteriosa che sta dietro gli avvenimenti volesse farci ricordare che siamo effimeri, siamo quella “pula spazzata dal vento” del salmista. Questa vuole essere una testimonianza in onore di Luca Serianni, una testimonianza che non ripercorrerà i suoi meriti accademici, peraltro enormi, ma che narrerà un incontro e la storia di un’amicizia mai venuta meno, seppur vissuta da lontano.



Le cose sono andate così. Ricordo ancora quel giorno in cui per la prima volta entrai alla Sapienza di Roma. Non sapevo quasi niente (non c’era internet, non c’erano “referenti per l’orientamento in uscita”, eravamo praticamente allo sbaraglio), sapevo solo che la mia facoltà sarebbe stata quella di Lettere. L’androne era vuoto. Un dipendente mi dice di andare a consultare la bacheca di istituto e di scegliere dalla lista le materie che ritenevo di voler frequentare (non c’erano crediti, allora, non piani di studio già prefissati, era il trionfo della libertà personale). Mi dice anche che in un’aula al piano terra c’è un docente che assiste le matricole. Faccio la mia bella lista ed entro e incontro Serianni. Mi spiega bene tutto e poi consulta l’elenco delle materie che ho segnato e nota che ho messo anche Storia della lingua italiana. “Lei si chiama Zappa, quindi sarà con me” (con Baldelli andavano i cognomi dalla A alla L, con Serianni quelli dalla M alla Z). Adesso avevo un punto di riferimento, un docente affabile e gentile che mi aveva accolto e mi aveva chiarito le idee. Con lui feci il primo esame della mia carriera universitaria, un esame tosto, perché Serianni pretendeva molto e perché per una matricola era forse uno scoglio da affrontare, strategicamente, più avanti. Ma che io abbia deciso di frequentarlo subito è la dimostrazione di quanto quell’incontro fosse stato significativo. Andò benissimo, ma mi fermai lì. Non avevo intenzione di sostenere un’altra annualità così dura.



Però accadde una cosa strana: ogni volta che incontravo Serianni in facoltà ci si salutava: nulla di speciale che io mi ricordassi di lui. Il fatto strano era che lui, tra tanti studenti, si ricordasse di me. Tanto che cinque anni dopo, allo sbando perché non sapevo con chi laurearmi (a volte l’eccessiva libertà può anche creare problemi…) pensai di ritornare da lui, quasi come un figliol prodigo. E lui mi accolse, anche se non avrei avuto la possibilità di triennalizzare il suo corso.

Che strano scherzo del destino: avevo cominciato la carriera universitaria con Serianni e la chiudevo con lo stesso docente, in modo piuttosto casuale! Insomma, ci ritrovammo, e fu bellissimo lavorare alla tesi con lui. Bellissimo e difficile, ovviamente. Ricordo ancora come ci rimasi male quando gli portai una bozza di tesi. La lesse e poi mi disse che la dovevo riscrivere: non era quello lo stile di una tesi scientifica. A quell’epoca non c’era il digitale, non computer, niente di niente, solo una macchina da scrivere. Riscrivere significava davvero riscrivere! Ma in questo rapporto c’era un maestro che mi prendeva sul serio e poi c’ero io, il discepolo che imparava. L’insegnamento vero vive di questo rapporto. Serianni fu un maestro in tutti i sensi, anche un maestro di vita.



Poi avvenne una cosa ancora più bella e imprevista: un’amicizia. Cioè, mi trattò da amico! Io lasciai l’università, tornai alla mia città e lì vissi la mia vita, ma potevo sempre raccontargli le cose che facevo, i progetti che avevo, metterlo a parte delle mie conquiste professionali. E lui rispondeva sempre, trovava tempo per farlo, anche con poche righe. Gli comunicai anche del mio matrimonio e lui volle farsi presente con un regalo, venne a trovare me e mia moglie! Chi ero io per meritare questo? Oggi che insegno, che sono io dietro la cattedra, che sono io il maestro, mi chiedo se riesco ad essere questo punto di riferimento, questo punto vivo amico per i miei studenti.

Ci siamo sempre tenuti in contatto negli anni. In qualche rara occasione ci siamo di nuovo incontrati. Avevo programmato una sua conferenza nel mio liceo, ma il lockdown ci ha impedito di realizzare il progetto. L’anno scorso, centenario di Dante, sono tornato a fare il discepolo. Gli ho sottoposto il mio saggio La pietra e la cattedrale e, come sempre, mi ha dato preziose indicazioni, non risparmiandomi critiche costruttive. Il saggio gli è piaciuto anche se non mi perdonava di aver scritto “se stesso” senza l’accento. E mi ha fatto un ultimo grande regalo: quello di citarmi nel suo ultimo libro Parola di Dante, dove mi presenta come uno “studioso appartato” che ha scritto un “interessante volume”. L’ultimo dono del maestro, della persona più influente e significativa della mia carriera universitaria, uno che mi ha dato metodo, rigore scientifico, certo, che mi ha trasmesso la passione per la lingua italiana e per la sua grande storia, ma soprattutto uno che mi ha aperto un mondo.

Il maestro vero “apre mondi”, nei quali poi sta al discepolo avanzare, trovare la propria strada, produrre il proprio originale contributo. Ma tutto questo processo si realizza meglio dentro un rapporto umano che in qualche modo ti cambia la vita, dentro un’amicizia che non ti aspetteresti mai di trovare in università. E quando un maestro così se ne va, anche in modo scomposto, è giusto ricomporre l’esatta figura, o quanto meno contribuire con un proprio piccolo tassello a che quella figura si stagli più chiara e lucente. Questo, solo in parte, ho cercato di fare. Grazie Luca!

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI