Se è vero, come si sente ormai affermare da più parti in ambito intellettuale e scientifico, che gran parte di ciò che la persona è si attua e si realizza in una relazione, esemplare da questo punto di vista è la storia di Helen Keller, una delle donne più intraprendenti della storia americana del XX secolo, della cui morte è appena trascorso il 50esimo anniversario, e della cui nascita ricorrerà nel 2020 il 140esimo anniversario.



Helen Keller nasce infatti il 27 giugno del 1880 in una tenuta a Tuscumbia, in Alabama, e muore il 1° giugno del 1968. In mezzo, nei suoi quasi novant’anni di vita, la sua esistenza sarà segnata da una strenua lotta contro la cecità e la sordità, causatele da una probabile meningite (ma ancora oggi non c’è sufficiente certezza in merito) patita all’età di 19 mesi.



Sprofondata da allora in un vortice di buio e solitudine, e conservando un flebile ricordo della vista della luce (perché, come lei stessa scriverà, “se abbiamo visto, almeno una volta, la luce e quello che ci ha mostrato, ci appartengono”), Helen sarà liberata dalla sua prigione da un’insegnante privata, Anne Sullivan, convocata dai genitori per la sua – seppur embrionale – esperienza riguardo un innovativo metodo di insegnamento riservato a ciechi e sordi, studiato e proposto dal Perkins Institution for the Blind negli anni di infanzia di Helen.

Anne Sullivan sarà colei che, dopo mesi di estenuanti fatiche, riuscirà a “raggiungere” Helen, vissuta fino ad allora come una bambina isolata e senza regole, e insegnandole l’esperienza miracolosa e misteriosa del linguaggio riuscirà a consegnarle la chiave per conoscere il mondo esterno.



Questo particolare momento, e lo sviluppo che vi conduce, sono stati esemplarmente presentati al grande pubblico con il film The Miracle Worker (tradotto in italiano come Anna dei miracoli), uscito nel 1962 e interpretato in modo magistrale da Anne Bancroft, nei panni di Anne Sullivan, e da Patty Duke, nelle vesti di Helen, entrambe vincitrici del premio Oscar. Ma questo e altri passaggi fondanti della vita di Helen sono stati da lei stessa raccontati nella sua autobiografia (la prima di tante), The Story of My Life, pubblicata nel 1903 e rieditata in Italia nel 2014 con il titolo Il silenzio delle conchiglie (“edizioni e/o”).

Ecco come Helen ricorda il momento in cui intuì che un semplice segno, esemplato con le dita della mano, era un nome, cioè era un simbolo che significava un oggetto esterno a lei, ed era ciò che le avrebbe permesso di rendere “sua” ogni cosa:

“Rimasi immobile, l’attenzione rivolta totalmente al movimento delle dita. Improvvisamente sentii la coscienza confusa di un qualcosa dimenticato. […] La parola [“a-c-q-u-a”], viva, risvegliò la mia anima, dandole luce, speranza, gioia, la rese libera! […] Andai via dal pozzo desiderosa di imparare. Ogni cosa aveva un nome e ogni cosa dava vita a un nuovo pensiero. Ritornando verso casa, ogni oggetto sul quale poggiavo le mani sembrava crepitare di vita. Questo perché guardavo a ogni cosa con quella strana, nuova vista che era venuta a me”.

Ma il passaggio più impressionante è immediatamente seguente a questo: scoperta la modalità più profonda di rapporto con la realtà, ciò che emerge come conseguenza è una nuova coscienza della realtà stessa, che fino a quel momento non aveva mai cessato di esistere, ma che ora diventa qualcosa che “mi” riguarda nell’intimo: “Entrando dalla porta, mi ricordai della bambola che avevo rotto. Andai vicino al camino e raccolsi i pezzi. Provai invano a metterli insieme. Allora i miei occhi si riempirono di lacrime, realizzando cosa avevo fatto, e per la prima volta provai pentimento e dolore”. Il linguaggio non è solo espressione di esperienza già vissuta, ma è anche elemento creatore di esperienza e di giudizio. Più profondamente ancora, dare un nome alle cose permette di riconoscerle finalmente per quello che sono, e permette di scandagliare la profondità del mistero della realtà, fino a provare coscienza e dolore per un uso improprio o sbagliato di ciò che, in qualche modo, riceviamo come donato. Anne Sullivan è stata per Helen ciò che, in fondo, ogni educatore dovrebbe essere: colui che conduce quanti gli sono affidati a “dare un nome alle cose”, cioè a un rapporto ordinato, vero e pieno di venerante rispetto con la realtà.

Ecco come Helen racconta ancora di Anne:

“E poi imparai dalla vita stessa. All’inizio ero solo un piccolo concentrato di possibilità. Fu la mia insegnante a dischiuderle e svilupparle. Quando arrivò da me, tutto ciò che mi circondava respirò di amore e gioia e divenne pieno di significato. […] Aveva compreso che la mente di un bambino è come un torrente poco profondo che gorgoglia e danza allegramente lungo il roccioso corso dell’apprendimento e riflette qua un fiore, lì un cespuglio, là una soffice nuvola; e lei cercava di guidare la mia mente lungo quel percorso sapendo che, come un ruscello, anch’essa doveva essere nutrita da torrenti di montagna e sorgenti nascoste, fino a sfociare in un fiume più ampio”.

E ancora:

“La mia insegnante mi è così cara che non riesco a immaginarmi senza di lei. Non so dire quanto il piacere che traggo dalla bellezza di tutte le cose sia innato o dovuto alla sua influenza. Sento che il suo essere è inseparabile dal mio e che le impronte della mia vita sono nelle sue. Tutto il meglio di me appartiene a lei, non c’è talento, aspirazione o gioia in me che non siano stati risvegliati dal suo tocco amorevole”.

Crescendo, e compiuti gli studi superiori, Helen si iscriverà all’università studiando latino, greco, francese e tedesco e laureandosi a pieni voti nel 1904. Dopo aver imparato faticosamente a parlare, diventerà un’attivista politica, fonderà un’associazione internazionale per la prevenzione della cecità, oltre a militare nel Partito Socialista, a stringere rapporti con grandi personalità come Charlie Chaplin o Mark Twain, e a conoscere personalmente tutti i presidenti degli Stati Uniti da Cleveland a Lyndon Johnson. Da quest’ultimo riceverà la Medaglia presidenziale della libertà. Nel 1948 si recherà a far visita a Takashi Nagai, il grande medico di Nagasaki testimone di fede e protagonista delle vicende che hanno caratterizzato la città giapponese relativamente alla bomba atomica sganciata dagli Stati Uniti al termine della guerra mondiale.

Ora, la vicenda di Helen Keller ha dei tratti estremi, di sofferenza e di eroismo, e senza dubbio il rapporto con Anne Sullivan è connotato da un’intimità e una interdipendenza poco paragonabili a qualsiasi altro rapporto possa sbocciare in una vita “normale”. Ma chiudendo le ultime pagine del libro, viene da chiedersi: non è forse vero anche per molti di noi il fatto che ciò che di grande cresce nel nostro intimo, ciò che di vero fiorisce, e la capacità di vedere finalmente la realtà sono nati, scaturiti e si sono sviluppati dentro un rapporto autorevole, affettivo, di amicizia o di amore?