“La nave non la salveremo”. Però “non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi”: è questo l’annuncio lapidario con cui Paolo imprime una svolta decisiva nella vicenda dai toni persino romanzeschi del naufragio sulle coste dell’isola di Malta, raccontata nel penultimo capitolo degli Atti degli Apostoli (27, 13-44). Il pathos infuso dal redattore del testo, testimone oculare che si esprime in prima persona, ne amplifica la presa drammatica. Tradurla in sequenza di immagini è la via maestra di ogni impulso di immedesimazione, anche se in questo caso la visionarietà delle rappresentazioni iconografiche non risulta di grande aiuto: il naufragio di cui parliamo non ha mai calamitato una vivace attenzione nell’universo dell’arte, rimanendo in secondo piano. Forse l’unica eccezione di qualità davvero rilevante è la versione che ne ha fornito a fine Cinquecento Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, nella cornice decorativa della Sala della meridiana nella Torre dei Venti dei Palazzi vaticani, a fianco della resa di altri eventi provocati dallo scatenamento degli elementi atmosferici, come la tempesta sedata attraverso cui Cristo salvò la “navicula Petri”, cioè la nave simbolo della compagine umana della Chiesa, evitando che finisse travolta dai flutti diventati pericolosamente ostili.
Dunque è la semplice traccia coinvolgente del racconto scritto che ha la forza di restituirci la scansione degli avvenimenti narrati. Li ricrea davanti agli occhi della mente. E così ci ritroviamo sulla stessa barca in compagnia di Paolo, di Luca, del centurione Giulio, del capitano della nave che non voleva dare ascolto alla saggezza ispirata di Paolo. Siamo resi spettatori del colpo di scena che li strappa da una fine annunciata. Il fatto storico ricostruito in presa diretta è così toccante nella sua eloquenza da caricarsi immediatamente di echi e rimandi che ci ributtano nelle circostanze dell’oggi: si fonde con l’esperienza del nostro presente, facendosi specchio di ciò che siamo chiamati a rivivere noi per primi nel nostro cammino.
Il naufragio dell’apostolo delle genti diventa il naufragio in cui noi stessi corriamo il rischio di sprofondare. La nave che va alla deriva, poi si incaglia nelle secche e comincia a frantumarsi si trasforma nella metafora di un mondo che sempre di più in ogni momento può cadere a pezzi. Se la crisi incombe all’orizzonte, questo orizzonte è il quadro nel quale siamo immersi fino al collo, che smentisce ogni nostra presunzione di autonomia, ogni leggerezza di distrazione, il cieco inoltrarsi verso un futuro che ignora i lati problematici di uno sviluppo insidiato dalla guerra fratricida, dall’esplosione delle diseguaglianze, dall’attacco portato ai fondamenti dell’umano come tale. Rischiamo noi stessi di inabissarci dentro l’oceano del negativo, nei gorghi della violenza dolorosa e prima ancora dell’indifferenza eretta a regola della civiltà del libero consumo globale.
È esattamente in questi termini che ci propone di accostarci al racconto emozionante di Atti 27 il commento dedicatovi di recente da p. Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine cistercense (Cristo, vita della vita, Fraternità di Comunione e Liberazione, 2022, pp. 67-69, 87-88). Non lo si ripropone semplicemente come una pagina del Nuovo Testamento da meditare. Si sottolinea che è una pagina “ricchissima”, in quanto “ci parla per il tempo presente”: “È una pagina di Sacra Scrittura in cui ci viene annunziato uno sguardo di fede sulla storia e le sue tragedie, affinché possiamo meglio interpretare e vivere ciò che viviamo oggi, nella nostra vita e in ogni ambito, e ricevere luci per orientarci a vivere ogni circostanza come un’opportunità di crescita in ciò che vale veramente la vita dell’uomo”, sul piano personale e allo stesso tempo in un’orbita collettiva, che coinvolge i destini del mondo di cui siamo parte.
L’episodio del naufragio di Paolo si inserisce nell’epopea della frenetica attività missionaria del grande convertito, chiamato a disseminare l’annuncio cristiano al di fuori del recinto nazionale ebraico. Anche sotto processo, detenuto o agli arresti domiciliari, non cessava di testimoniare davanti a tutti la fede che lo aveva conquistato. Fu così anche durante il travagliato viaggio che, dalla Palestina, avrebbe dovuto condurlo fino a Roma, al cui supremo tribunale aveva fatto appello per difendersi dalle accuse delle autorità religiose dei giudei. Raggiunta l’isola di Creta, i naviganti furono però sorpresi da “un vento d’uragano”, finendo travolti da una tempesta furiosa che si prolungò per giorni e giorni. Quando tutto sembrava perduto, il prigioniero che la nave trasportava si prese con ardore il diritto di parola e, sconvolgendo ogni gerarchia di autorità, forte della rivelazione di un angelo inviato dal Dio a cui proclamava di appartenere, incitò l’intero equipaggio a organizzarsi per trovare riparo là dove l’inclemenza del tempo avverso li stava spingendo. Bisognava restare saldi nella convinzione che il futuro non riservava loro solo distruzione e morte. Se fossero rimasti uniti, sull’imbarcazione che poi avrebbero abbandonato solo in prossimità dell’approdo intravisto come via di uscita, tutti si sarebbero salvati.
I fatti si svolsero intorno al 60 d.C. Una volta inclusi nel racconto esemplare degli Atti, la memoria cristiana dei secoli successivi li rivestì di significati che restano vivi e influenti fino a noi oggi. La tradizione ha fissato il punto esatto dei bassi fondali che consentirono a Paolo e agli altri numerosi ospiti della nave di calarsi in mare per raggiungere la terra ferma, sfuggendo alla morsa delle onde selvagge. Si venerano i luoghi in cui egli trascorse i tre mesi sull’isola prima di ripartire verso la Sicilia, in particolare la grotta che divenne il centro di irraggiamento di un messaggio di liberazione legato al semplice fatto oggettivo della sua presenza sul posto, punteggiata da eventi prodigiosi che suscitarono l’ammirazione stupefatta di quanti poterono entrare in contatto con lui e il suo piccolo nucleo di accompagnatori fedeli.
Dalla sua predicazione prese avvio il primo innesto del cristianesimo nell’isola che stava al centro delle rotte del Mediterraneo, e con l’andare del tempo si edificarono segni monumentali, rappresentazioni visive a ricordo degli eventi verificatisi, infine chiese via via trasformate in senso moderno dai maltesi, certi di poter riconoscere nell’impatto con la figura di Paolo la radice primaria della loro identità cristiana, salvaguardata in mezzo a tante vicissitudini anche traumatiche fino ai giorni nostri.
Se il naufragio davanti all’isola di Malta può rappresentare una sorta di prefigurazione della liquida incertezza in cui siamo scivolati nel nostro angolo di prestigioso Occidente, dal racconto degli Atti si possono anche trarre incisivi ammonimenti su come affrontare le emergenze della condizione umana nel nostro tempestoso presente. Per la coscienza del credente, in primo luogo, è fondamentale la reazione di Paolo davanti al rischio di essere travolti da un panico senza sbocchi: Paolo invita alla speranza, accende la luce della fiducia dentro il dramma da vivere, e per fare questo celebra il rito di una nuova fraternità consacrando il pane che rende presente il corpo eucaristico di Cristo.
Come commenta p. Lepori, lui riparte dalla riaffermazione della “presenza di Cristo reale in pieno naufragio”. E il Cristo che riafferma “è certamente quello di cui abbiamo solamente bisogno”. È il Cristo crocifisso e risorto da morte, il Cristo che “ha voluto scendere fino al fondo, all’Inferno del naufragio umano, fino a disperare là dove l’uomo dispera di Dio”: “questo amore di Dio infinito che non è estraneo al naufragio del mondo”, che è “dentro” il dolore, la solitudine e le disperazioni che lo feriscono da ogni lato (p. 87).
Per tutti, credenti e non, l’avventura di Paolo tesa tra la vita e la morte richiama al fatto che solo l’abbraccio in una solidarietà veramente fraterna è lo scudo da innalzare quando la minaccia ci colpisce al cuore. Non ci si può salvare da soli, contrapponendo il proprio bene egoistico agli interessi della comunità più grande che ci ha generati. Restando solidali, si creano i fili invisibili di una rete che strappa i naviganti ormai allo stremo dal loro destino di annientamento. Ma perché ciò avvenga, bisogna rendersi disponibili al rischio che possa essere smantellata la “nave” che ci ha fin qui accompagnato: i supporti pratici, le strutture di collegamento, persino gli apparati di sicurezza che ci siamo dati nel corso di una storia antica e recente devono saper accettare la prova del fuoco per ritrovarsi purificati nella nuova fase che ci attende. Non è detto che le nostre scialuppe di salvataggio si mantengano intatte per sempre, resistenti come granito e impermeabili a ogni cambiamento. La sostanza di quanto più ci preme può rimanere accessibile anche assumendo configurazioni che rispondano in modi diversi alle sfide di una esistenza che evolve nel tempo, facendoci passare attraverso tensioni e conflitti di ogni genere. Vale nel privato, così come sulla grande scala delle istituzioni, dell’economia e dell’alta politica.
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