Come è bello che Papa Francesco dedichi a Dante la sua ultima lettera apostolica, Candor lucis aeternae, nel VII centenario della morte del Poeta, e che lo faccia proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra il mistero dell’Annuncio a Maria e dell’Incarnazione, cioè il mistero per cui Dio diventa uomo, carne umana. Proprio in questo giorno, nel quale Infinito e finito si toccano, il Papa ci parla di Dante, perché, come dice al paragrafo 6 della lettera, “il mistero dell’Incarnazione (…) è il vero centro ispiratore, il nucleo essenziale di tutto il poema. In esso si realizza l’admirabile commercium, il prodigioso scambio per cui, mentre Dio entra nella storia facendosi carne, l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina”.



Finito e infinito, cielo e terra, diavoli e angeli, visione di Dio ed esperienza del peccato, tutti questi fattori percorrono la Commedia. Sono le stesse tensioni, gli stessi drammi che attraversano la vita di ognuno di noi. “La Commedia parla all’uomo dell’uomo. È uno specchio di passioni, di cadute, di aspirazioni, di ambizioni” aveva detto il presidente Mattarella nel suo discorso dell’ottobre scorso in occasione delle celebrazioni dantesche al Quirinale.



Dante è come noi e noi come lui. Ma allora cosa ha in più per interessarci,  forse per affascinarci? Talora, nella pluriennale esperienza di insegnamento, ho visto studenti accendersi alla lettura di Dante. Accendersi non per le profondità del male e dell’abiezione (non c’è bisogno di Dante per conoscerle!), né per i vertici della beatitudine (troppo spirituali per dei ragazzi!), ma forse per quella spregiudicata capacità di rischio che a Dante non è mai mancata, quell’energia indomabile di brandire la realtà, di lasciarsi sfidare da essa, di accettarne fino in fondo la provocazione. Nell’Inferno i pusillanimi, i vili, quelli che nella vita non hanno avuto il coraggio di scegliere, sono disprezzati a tal punto da non doversene neanche parlare: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.



Dante nella vita ha sempre rischiato: ha innovato le mode linguistiche, usando il volgare italiano al posto del latino come lingua letteraria, ha partecipato attivamente alla vita politica sfidando il potere e la giustizia del tempo e finendo in esilio con una condanna a morte pendente sul capo, non ha temuto di attirarsi odii e inimicizie raccontando ciò che “s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrumo”.

Ma c’è un punto, a me pare, in cui più acutamente diventa evidente come  Dante non abbia paura delle sfide e investa fino in fondo sulla realtà e sulle risorse di cui egli dispone. È l’esperienza dell’amore. Emblema di tale esperienza è il famoso canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. È evidente lo struggimento di Dante davanti alla sofferenza e alla dannazione dei due amanti, struggimento che lo annichilisce “sì che di pietade io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade”. Ma è indiscutibile che Francesca, al di là dei nobili tentativi della critica romantica e di quelli meno nobili del femminismo nostrano, sia dannata, colpevole, peccatrice. Dante le mette in bocca il linguaggio della poesia stilnovista: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, “Amor, ch’a nullo amar perdona”. Siamo di fronte a quella concezione spirituale dell’amore, così pura, così perfetta, che avrebbe dovuto garantire un’esperienza altrettanto pura e perfetta. Ma così non fu! Dante infatti parla di “doloroso passo” e  di “dubbiosi disiri”. Neppure la concezione stilnovista dell’amore li ha salvati e ha garantito loro quella perfezione che avevano desiderato. Torna in mente quella frase di Ibsen: “Può tutta la volontà dell’uomo ottenere un solo gesto perfetto?”.

Esiste sempre un’inevitabile sproporzione tra la perfezione che desideriamo e quello che con le nostre forze, le nostre ideologie, i nostri progetti e le nostre strategie sulla vita, riusciamo ad ottenere. E allora viviamo perennemente arrabbiati, additando il nemico di turno che impedisce la realizzazione di ciò che vorremmo, oppure  restiamo rassegnati e intorpiditi. “Sembriamo un popolo in trance. Guardiamo le vetrine, ma non mettiamo a fuoco e non compriamo”. Così diceva recentemente in un’intervista Giuseppe De Rita.

A questo punto possiamo chiederci: ma Dante come ha fatto davanti alla paura, alla consapevolezza che le sue energie non bastavano, davanti alle tentazioni e al ricatto del male? “Dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco”. Qualcuno gli si offre davanti, gli compare sulla strada. Dante non sa neppure se sia un’ombra o un uomo, ma avendo esaurito risorse ed energie, chiede aiuto a quell’imprevista presenza che la realtà gli offre. In fondo rischia ancora. Investe ancora sulla realtà!

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