Dalla visione completa del maxi-spot del Parmigiano Reggiano della durata di 25 minuti si ricava, innanzitutto, un intimo e partecipato dolore per tutti coloro che vi hanno preso parte: attori, registi, produttori, fino ai committenti. E a tutti va l’augurio che tutto questo sarà dimenticato e che le carriere professionali di tutti costoro siano felici ed esaltanti.



Al di là delle polemiche, spesso rozze e triviali quale, ormai, è la cifra comune del dialogo contemporaneo, restano alcuni punti fermi che questo spot ha dato occasione di approfondire, sempre per chi lo voglia.

Il primo e più importante, è che il Parmigiano Reggiano (di seguito PR) non è soltanto un prodotto di eccellenza da centinaia d’anni e che continua a rendere bella la vita di milioni di persone. PR è un vero baluardo della dignità esistenziale contro la massificazione imperante: poter gustare un prodotto d’eccellenza alla portata di tutti significa, per tutti noi, che c’è differenza tra la cacca di cavallo e i profiterol anche se hanno forma e colori simili; significa sapere che esiste la bellezza e anche se, per motivi economici, dobbiamo ricorrere a sottomarche, sappiamo che questo esiste e, per questo solo fatto, ci riscatta dall’abitudine e dalla degradazione. Ed è per questo che la contraffazione dei prodotti italiani, proveniente dall’estero, va combattuta come una guerra, come se fosse la linea del Piave nel 1915-18, con la dovuta cattiveria.



Ma il PR è anche di più e nel filmetto diretto da Paolo Genovese non si vede lo sforzo collettivo di un consorzio di più di 300 aziende piccole, medie e grandi che producono sempre di più e meglio rispettando le leggi di mercato e di costo. Nel film non si vede questa complessità della diversità, perché ogni caseificio fa un prodotto leggermente diverso rispetto agli altri. Ancora una volta, PR è contro la massificazione moderna.

Una massificazione di cui sono preda i cinque insulsi giovanetti, bellocci e scarmigliati posseduti dalla sola ambizione di “vincere” o “di avere un sogno” (e qui viene in mente un personaggio demenziale di Scary movie che esclama “io ho un sogno: avere un sogno!” e che starebbe degnamente nel cast). Qui sta il vero problema dell’operazione: narrare una storia antica, fatta di fatica e di bellezza, con attori, battute fiacche e stilemi, tipici di un’epoca sradicata come la nostra, che rifiuta di conoscere il proprio passato e non ha futuro. Un delta incolmabile fra una tradizione che continuamente si rinnova (PR) e l’odierno mondo fatuo di ronin (in giapponese “uomini delle onde”).   

E, infine, una parola sul povero Renatino, ampiamente sfottuto sui social. Che un Renatino emiliano lavori 365 giorni all’anno è una vaccata pazzesca e lo sanno bene gli emiliani e i romagnoli che lavorano come matti e, dopo il lavoro, si godono la vita alla grande: una tradizione secolare che comprende Verdi, i tortellini, il jazz, la salama da sugo e, tra tante altre cose, fer l’amur con mucho gusto.

Che le contestazioni più forti vengano dai comunisti può anche far piacere, dato che sembra siano rimasti gli ultimi difensori del diritto dei lavoratori ad avere una vita extralavorativa. In realtà era stato proprio il social-comunismo a identificare l’uomo col lavoro e a disumanizzarlo, e fu proprio contro questa filosofia aberrante che padre Josef Tischner, nella Polonia di Solidarnosc, affermava che il lavoro è la più alta forma di comunicazione tra uomo e uomo ed esige una profonda, suprema responsabilità. Lavorare duramente per rendere il proprio lavoro (ogni lavoro) un’opera d’arte, dalla scuola al caseificio, senza guardare orari ma con una “banda di fratelli” al tuo fianco è una delle avventure più belle dell’esperienza umana.

Ma questo gusto di vivere e lavorare è ignorato nel filmetto di Genovese e verrebbe da gridare al mondo ciò che disse San Giovanni Paolo II agli operai di Nowa Huta il 9 giugno 1979: “Ricordate: Cristo non accetterà mai che l’uomo venga visto soltanto come mezzo di produzione o che si veda egli stesso come tale. Non accetterà mai che l’uomo venga valutato, misurato, apprezzato soltanto su questa base. Cristo non lo permetterà mai!”.

Se noi abbiamo dimenticato tutto questo la colpa è solo nostra e personale, della mia generazione che ha vissuto quella grandezza ma non è riuscita a trasmetterla alla generazione successiva. Ma la Speranza, ultima dea uscita dal vaso di Pandora, non muore. E piace pensare che Renatino abbia mentito a quegli sbarbati e prima o poi se ne vada al mare con la famiglia, portandola su una barca a vela a gustare l’orizzonte dell’Adriatico, tra un fritto di pesce e una bottiglia di Trebbiano fresco. 

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