Grazie alla piccola e intraprendente casa editrice Aspis di Milano, è finalmente disponibile il testo di Ivan A. Il’in (1882-1954), Sulla Russia, a cura di Olga Strada. Il volume raccoglie due scritti diversi dell’autore russo: Sulla Russia. Tre discorsi (Za Rossiju. Tri reči, 1934) e Cosa riserverà al mondo lo smembramento della Russia (Čto sulit miru rasčlenenie Rossii, 1950). L’opera ha una bella prefazione della curatrice e una preziosa postfazione di Aldo Ferrari. I due studiosi forniscono al lettore, nei loro documentati saggi, informazioni, dati e rilievi importanti sulla vita di un filosofo citato spesso dal presidente russo e dai circoli politici governativi.
Si pensi, in particolare, al preciso e forte riferimento a Il’in fatto da Putin verso la fine del discorso pubblico del 30 settembre 2022, in cui veniva ratificata l’annessione dei territori di Doneck, di Lugansk, di Cherson e di Zaporižžja dopo i “referendum”. “Se considero la mia patria la Russia, significa che amo, medito e penso in russo, che canto e parlo in russo; che credo nei poteri spirituali del popolo russo. Il suo spirito è il mio spirito; il suo destino è il mio destino; la sua sofferenza è il mio dolore; la sua prosperità è la mia gioia”. Esattamente cento anni prima, proprio a settembre, Lenin, estimatore del filosofo hegeliano, aveva ordinato il suo esilio con il “piroscafo dei filosofi”. La sua permanenza all’estero, fino alla morte nel 1954 a Zollikon (Svizzera), fu segnata prima dall’apprezzamento per Mussolini e Hitler e poi dalla più spiccata simpatia e affinità con le ideologie di Franco e Salazar.
Ma in che misura Ivan Il’in incide, oggi, in qualche modo, negli eventi tragici e terribili che si stanno susseguendo dall’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022? Marlène Laruelle e Timothy Snyder, a tal proposito, hanno posizioni diverse. La prima, docente alla George Washington University, ha affermato che nello scrittore è presente la più “classica” e convenzionale visione della Russia, basata su autocrazia, statualità, messianismo ed eccezionalismo culturale. Il secondo, storico dell’Università di Yale, ritiene che “Il’in sarebbe non solo ‘il profeta del fascismo russo’, ma anche l’ispiratore della ‘svolta fascista di Putin’ dopo la crisi ucraina del 2014, come sostengono anche altri studiosi tra i quali Alexander Motyl e Vladislav Inozemcev” (p. 89).
È perciò interessante accostarsi direttamente al testo stesso dell’autore, riportandolo, innanzitutto, al contesto storico e poi facendo attenzione a questioni e nodi presenti. Certamente, alcune espressioni ricorrenti svelano la sua natura e le sue preoccupazioni. Nell’opera di Ivan A. Il’in si trova spesso la formula “dietro le quinte del mondo”. Nell’ottica dello scrittore, infatti, è un intero mondo che si muove nell’ombra per fare il funerale alla Russia nazionale unita. E di fronte a tale sfida, il rischio è quello di raggomitolarsi, rinunciando al “dono dell’ossessione profetica” (p. 14), che fa vedere la necessità del compimento mondano dell’idea bianca. Tale idea è pura, forte e profonda, in grado di determinare la vita della patria russa. Essa non è uno sguardo vivente della divinità, ma l’aspetto antecedente a una necessaria costruzione determinata.
Il dispiegarsi dell’idea, attraverso lo sforzo eroico del popolo e dei capi, implica tre pesanti fardelli da portare: quello della terra russa vasta e sterminata, quello della natura maestosa e possente, quello della popolazione costituita da centottanta etnie diverse. Tali fardelli derivanti dai dadi del destino hanno portato la storia russa a una “tragedia vivente di sacrificio” (p. 33) e il popolo russo a mettere in gioco un “servigio pieno di abnegazione” (p. 33). La Russia, infatti, ha una sua natura specifica e determinata; è un organismo vivente che ha passato due terzi della sua vita a guerreggiare e ad affrontare pericoli.
“La Russia, come una vittima sacrificale gettata in pasto al predatore, è un’entità alla quale nessuno è in grado di far fronte, sulla quale tutti si accapiglieranno, che darà vita a pericoli inimmaginabili e intollerabili per l’umanità intera” (p. 79). L’intensa portata di una vita tessuta nella sofferenza e nel continuo susseguirsi di guerre è stata percorribile per il popolo russo, grazie alla silenziosa capacità “di celare in profondità forze spirituali inesauribili, infinite, forze site sotto le fondamenta del Cremlino, dove quest’ultimo cela l’io nascosto” (p. 35).
Colpisce in questa frase una sorta di fideismo irrazionalistico e immanentistico, sganciato dall’origine stessa delle forze spirituali; perciò, collocate e concentrate in un luogo fisico: quello del potere. E inoltre la sostituzione della persona del Cristo con il termine Patria.
Tali visioni della realtà, peraltro, per la loro portata, impongono una riflessione e un giudizio complessivi, riguardanti la genesi del discorso del filosofo russo e le sue criticità. È perciò interessante considerare, a tal proposito, la valutazione della sua posizione culturale fatta da alcuni intellettuali a lui contemporanei. Per il poeta simbolista Belyj il giovane Il’in, hegeliano, reazionario di destra, aveva un che di morboso. Stanislavkij, fondatore del celebre metodo, a sua volta, non volle averlo come assistente, nonostante le ripetute richieste fatte dallo scrittore.
Probabilmente, invece, aveva visto giusto e in profondità Nikolaj Berdjaev. Il’in aveva criticato aspramente Tolstoj, fautore della non violenza, in Sulla resistenza al male con la forza (O soprotivlenii zlu siloju, 1925), mettendo in luce la necessità della forza della “spada cristiana” contro i nemici della causa divina e contro i sacrileghi corruttori del popolo. Il cristiano, nella sua ottica, doveva portare nel mondo la negazione attiva dell’amore contro i negatori di Dio. I nemici di Dio non sono volti passibili di un cambiamento, ma parti di un tutto ostile. La negazione della negazione, a suo avviso, avviene, perciò, attraverso la distruzione del contrario, attraverso la demolizione dell’opposto, non tramite la croce.
Berdjaev, colpito dal contagio prodotto nel pensiero di Il’in dalle scelleratezze del bolscevismo, scrisse: “il bene del quale parla Il’in è molto relativo, appesantito, deformato dalle passioni della nostra epoca, adatto a scopi bellico-tattici … La Čekà in nome di Dio è più rivoltante della Čekà nel nome del demonio” (p. XI).
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