Scrivo con colpevole ritardo del Premio Strega di narrativa, la cui cerimonia è avvenuta il 2 luglio, un tempo che sembra consegnato già alla storia, soprattutto alla storia provvidenziale dell’oblio. La colpa del ritardo non è mia, ma del fatto che un evento del genere, con i suoi libri, sembra già passato e sepolto. È strano: potremmo parlare di Omero e del suoi poemi vecchi di due millenni e mezzo e non sentirci in ritardo, mentre commentando lo Strega ci sentiamo obsoleti.



Sono però giustificato dal fatto che non voglio parlare dei libri finalisti che non ho letto (eccetto uno) ma degli avvenimenti che sono accaduti “intorno” ai libri e soprattutto agli autori, prima, durante e dopo la cerimonia. Avvenimenti che, a mio parere, sono la vera recensione, il vero criterio che aiuta a decidere se leggere questi libri o no. Non è una pretesa mia, dipende esattamente da come si è posto lo Strega: un evento di spettacolo, di chiacchiere, di polemicuzze, di luoghi comuni mainstream che “richiede” di essere giudicato secondo questi parametri. La narrativa, l’arte della parola e del racconto, c’entra pochissimo.



Ha vinto il Premio Strega 2020 Sandro Veronesi con il romanzo Colibrì. Di cosa parli questo romanzo, Dio solo lo sa: giuro che mi sono impegnato ad ascoltare e a leggere soprattutto le interviste all’autore uscite in prossimità del 2 luglio, i numerosi passaggi televisivi: dovrebbe essere la storia di un uomo che sa resistere. Resilienza, quella roba lì. Beccato in un festival da Rai3, canale titolare della diretta che per due-tre giorni ha pompato la notizia, al povero Veronesi quasi non è stato permesso di rispondere alle domande di una frettolosa anchor-woman, durante un collegamento imbarazzante, e a me povero spettatore è rimasto il dubbio. La vera, unica notizia strombazzata è che Veronesi ha vinto lo Strega per la seconda volta: il romanziere scudettato, insomma, la Juventus della narrativa de noantri (questo ho letto in un meraviglioso commento giornalistico). Un po’ poco per convincermi a leggerlo, cosa che infatti non farò, aspettando, per giudicare, il film per cui il romanzo è probabilmente stato pensato di un nannimoretti o regista equivalente.



Così come non leggerò il secondo classificato, Gianrico Carofiglio, ex pm, ex pretore, ex sostituto procuratore, ex politico, passato a tempo pieno a due attività principali, quella di scrittore e quella di ospite diletto da Lilli Gruber, carica, quest’ultima, duramente contesa da Scanzi e Travaglio, il che è tutto dire. Gli ostacoli insormontabili alla lettura sono due: la noia mortale che mi suscita il genere letterario cosiddetto “thriller legale”, di cui Carofiglio sarebbe l’apripista in Italia (chissà se è vero), come mi annoiano mortalmente tutti i romanzi che aderiscono troppo pedissequamente a un cliché, un genere, una moda; diciamolo: la vera letteratura sfugge sempre un pochino alle classificazioni troppo schematiche. Ma perché, dicendo questo, mi sembra di dire qualcosa di troppo sofisticato per il “livello Strega”? Il secondo motivo è l’altissima considerazione, che sfiora l’ammirazione assoluta, per il ruolo dei magistrati e di chiunque debba amministrare la giustizia: compito nobilissimo, delicato e di alta responsabilità: giudicare significa mantenersi neutrali, non influenzabili da preconcetti, servitori della legge e dell’uguaglianza di fronte ad essa di qualsiasi cittadino, no? Per questo non capisco, proprio non capisco, come un magistrato possa a un certo punto darsi alla politica e addirittura fondare un partito (generalmente di sinistra); la cosa mi ferisce ed azzera la mia fiducia nel magistrato e nell’uomo, figuriamoci nello scrittore. Per questo non leggerò Carofiglio, del quale però amo tanto il meraviglioso astio duramente trattenuto quando la conversazione del salotto-Gruber si avvicina a Salvini, o mette in pericolo i pensieri mainstream, i valori radical-chic e le parole d’ordine dei padroni della narrativa.

Il momento più discusso sui social e sui media della cerimonia di quest’anno è stata una frase dell’unica donna finalista, Valeria Parrella: “E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri!”. L’ha proferita quando l’imbarazzato conduttore di Rai3 Giorgio Zanchini l’ha informata che avrebbe parlato con Augias di come è cambiata la condizione femminile dopo il #metoo. Assunta immediatamente come paladina femminista, la Parrella ha in pratica affermato che solo le donne sanno come sono fatte le donne e che è da uomini misogini, paternalisti e presuntuosi parlarne. Questo atteggiamento è stato battezzato con un orribile termine inglese, come al solito: mansplaining. Non starò a commentare la bislacca e incoerente idea che solo le donne possono parlare di donne, essendo io circondato da donne che continuamente giudicano e definiscono come sono gli uomini, né questa strana idea della conoscenza, per cui si può sapere qualcosa solo osservandolo dall’interno, anzi dall’intimo, suppongo. Ma poiché una delle cose che più mi tediano è sentire le donne che parlano di donne, non leggerò la Parrella, se questo è il picco del suo pensiero così come è sbandierato nel milieu dello Strega.

Salto Daniele Mencarelli e il suo romanzo Tutto chiede salvezza, perché è l’unico che ho letto. Racconto di un realismo tenero e duro insieme, ambientato in un reparto di ricoverati di Tso, drammaticamente attuale, scritto con uno stile moderno e una lingua splendida, debitrice del suo esordio da poeta, un piccolo gioiello letterario insomma, viene da chiedersi cosa diavolo ci faccia allo Strega. Un vero marziano. Sarà per la forza del suo editore, Mondadori, che ha deciso di portarvelo (merito delle buone vendite del romanzo, nonostante il tema non pop e l’ostacolo del periodo di quarantena piombato sull’uscita fresca fresca del libro?), a cui volentieri riconosciamo tutto il merito.

Ha fatto parlare molto di sé anche il romanzo Febbre di Jonathan Bazzi, di matrice autobiografica. Viene toccato il gender, se così possiamo chiamarlo, che ormai non può più mancare. Non so se nel romanzo, che non leggerò, ma dai post e da una buona campagna di marketing sul libro sì. Sull’omosessualità dell’autore si è scritto molto, anche sul fatto che non voglia essere definito maschio o femmina e che si sia presentato alla cerimonia finale con le unghie smaltate con la scritta “femminuccia”. E del suo disagio sociale, della sua famiglia che rifiuta le sue idee e non si è congratulata con lui per lo Strega, della società che non capisce queste cose eccetera eccetera eccetera. Ormai è una figura immancabile negli eventi televisivi, nei concorsi, nei festival. A Sanremo c’era Achille Lauro, tanto per dire, allo Strega c’era Bazzi. Per carità, tutto lecito. Ma io, essendo un malfidato, non ci credo. Non sto parlando della persona, che non conosco e non mi interessa (d’altronde come lettore non mi interessa neanche di Montale, ma delle sue poesie sì). Ma dell’immagine creata ad hoc, dell’opera e del tema, che mi annoiano e a cui chiedo il permesso di non concedere il mio tempo.

Del libro e di un sesto autore, Gian Arturo Ferrari, non so niente. Niente di quello che è accaduto dopo la cerimonia dello Strega, dico. Conosciamo la sua attività universitaria ed editoriale, il lavoro per la promozione del libro e della lettura, certo. Questo è il suo primo romanzo. Sembra non aver fatto nulla per fargli pubblicità come si fa oggi: né dichiarazioni mainstream, né provocazioni gender, né comparsate televisive. Il tema del suo romanzo, Ragazzo italiano, non ha niente di eclatante o spettacolare, ma approfondisce una storia che è sua e nostra con la pazienza delle parole e della narrazione. Per questo, prometto all’autore che lo leggerò.