Karen Blixen, famosa per il romanzo La mia Africa, è uno dei tanti Premi Nobel per la letteratura mancati, anche se Ernest Hemingway, ricevendo il suo nel 1954, ne suggerì il nome all’Accademia svedese.
Il suo racconto Il pranzo di Babette, in inglese – la lingua in cui fu scritto nel 1950 – Babette’s Feast, fa parte della raccolta Anecdotes of Destiny che uscì sotto lo pseudonimo Isak Dinesen: fu l’ultimo libro che la Blixen pubblicò in vita.
Anecdotes of Destiny potremmo tradurlo con “piccole storie personali”, curiose e spesso anche divertenti, che hanno a che fare con il Destino. Ma soprattutto “pranzo” (che poi fu una cena), quando si parla di madame Babette Hersant è un sostantivo davvero un po’ riduttivo: “feast” significa banchetto, festa culinaria per celebrare qualcosa di importante, di unico; in ogni caso un pasto che supera i confini del mangiare, del nutrirsi, per quanto riccamente lo si possa fare. E poi “feast” è qualcosa che, con tutta evidenza, ha a che fare con la gioia. Ed è esattamente questo che Karen Blixen ci voleva raccontare: una felicità fuori dell’ordinario, raggiunta usando in maniera irrituale, paradossale, persino parossistica elementi che fanno già parte della nostra vita ordinaria.
Natale è alle porte. Noi italiani ci prepariamo tutti, a tutte le latitudini, anche di reddito, a banchetti pantagruelici, perché siamo fatti così: non c’è congiuntura che tenga, il 25 dicembre a tavola si esagera. Certo, moralisti come siamo (diventati), prima ancora di cominciare le libagioni siamo già afferrati da sensi di colpa, da rimorsi pelosi. Un po’ ci vergogniamo di quello che ci aspetta, ne temiamo gli effetti di lungo periodo, ma con altrettanta devozione infiliamo nel carrello della spesa quantità di cibarie fuori dell’ordinario. In una zona semi–conscia di noi stessi, forse, ci ricordiamo che in questo momento dell’anno ci sarebbe qualcosa da festeggiare senza troppe remore.
Ma la storia di Babette non è affatto un’abbuffata senza ritegno. Non è una “Grande bouffe”, come quella del film di Marco Ferreri, una vicenda di ostentazione gastronomica destinata a sortire in una drammatica autodistruzione personale o sociale. Il pranzo di Babette è qualcosa che ha a che fare con l’umana felicità. Come forse ricorderà chi ha visto il film di Gabriel Axel estratto dal racconto della Blixen, con Bibi Andersson, Oscar per la miglior pellicola straniera nel 1988, che ebbe un discreto successo: anch’esso è stato a suo modo un Anecdote of Destiny, un’occasione fatale, uno strano fuoco di paglia firmato da un regista danese poco conosciuto anche tra i cinefili, e destinato a non ripetersi.
Spieghiamo, anzitutto, dove ci troviamo. Siamo alla fine dell’800, “in Norvegia – scrive la Blixen – c’è un braccio di mare lungo e stretto chiuso tra le montagne che si chiama Berlevaag Fjord”. Martina e Filippa sono le figlie di un decano locale della Chiesa Puritana, che le ha chiamate in quel modo “in onore di Lutero e del suo amico Melantone”. Da giovani non dovevano neppure esser male, e certamente erano state della ragazze corteggiate: una aveva rinunciato all’amore di un giovane tenente che diverrà poi generale, l’altra aveva rinunciato alle lezioni di canto di Achille Papin, il più famoso cantante lirico dell’epoca, perché lui si era permesso di baciarla durante la prova di un pezzo del Don Giovanni di Mozart. Le due sorelle erano parte di una comunità cristiana riformata pia e onesta e caritatevole ma umanamente irrigidita, e non felice, i cui “accoliti rinunciavano ai piaceri di questo mondo, perché la terra e tutto quanto essa offriva era per loro soltanto una specie di illusione, e la vera realtà era la nuova Gerusalemme verso la quale essi aspiravano”.
Il racconto è bellissimo, e sottile. In paese, undici abitanti in tutto, un bel giorno arriva una strana signora, Babette (diminutivo di Barbara, ovvero straniera) Hersant, una “immigrata” francese in Scandinavia che Martina e Filippa salvano praticamente dalla strada, perché non ha un soldo. Viene accolta dalle due signorine e lavora per loro gratuitamente come governante. Ma aleggia attorno a lei una certa aria di mistero. E nel racconto mano a mano si scopre che è stata costretta alla fuga dalla Parigi rivoluzionaria perché accusata di essere una communarde. Anche lei è sola, ha perso il marito e il figlio sulle barricate. E oltretutto ha un altro difetto: è cattolica. Le due sorelle “avevano, dapprima, tremato un pochino all’idea di ricevere sotto il loro tetto una papista. Ma non volevano importunare una creatura già tanto provata con il loro catechismo, e del resto non erano troppo sicure del loro francese. Convennero, in silenzio, che l’esempio di una buona vita luterana sarebbe stato il mezzo migliore per convertire la loro domestica”.
Un giorno Babette riceve una lettera che le comunica che ha vinto 10mila franchi, una grossa somma, alla lotteria. E decide di spendere il denaro per cucinare una cena speciale per celebrare, in quel nevoso dicembre, i cento anni dalla nascita del sant’uomo padre delle sorelle e per ringraziarle di come l’hanno accolta. Martina e Filippa subodorano che il banchetto non sarà in linea con il loro austero stile di vita, ma cedono, appunto, all’“anecdote of Destiny”: purché, si fanno promettere da tutti i commensali, a tavola non si parli di cibo.
Gli abitanti del paese non vanno daccordissimo tra loro, sotto traccia la vita di Berlevaag è un intrico di antipatie, sospetti, di piccoli conflitti irrisolti, solo superficialmente sanati dalla comune devozione. Mano a mano, però, che la cena inizia e le portate della cuoca francese arrivano sulla tavola (brodo di tartaruga, blinis Demidoff, le straordinarie “cailles en sarcophage”, quaglie in crosta, e per chiudere babà Savarin e caffè con tartufi al rum, innaffiati da un Clos de Vougeot, leggendario rosso di Borgogna (un vino che anche oggi costa diverse centinaia di euro a bottiglia) e champagne Veuve Clicquot, gli austeri scandinavi vengono sedotti e inebriati dal pranzo nel quale Babette ha potuto finalmente esprimere il suo talento. Prima affascinati e poi travolti dalla straordinaria bontà del cibo, dalla bellezza della tavola splendidamente imbandita, dall’amore con cui i piatti sono stati cucinati.
Alla fine del racconto il vecchio generale Lorens Loewenhielm, il dodicesimo (numero forse non scelto a caso) invitato aggiunto, alza i calici al cielo e propone un brindisi dal tono biblico: “L’uomo è fragile – dice – e un po’ folle. A noi tutti è stato detto che la grazia dev’essere trovata nell’universo. Ma nella nostra umana stoltezza e miopia immaginiamo la grazia divina come qualcosa di finito. E per questa ragione tremiamo. Noi tremiamo prima di fare la nostra scelta nella vita, e dopo averla fatta tremiamo di nuovo nel timore che sia una scelta sbagliata. Ma arriva il momento in cui i nostri occhi sono aperti e vediamo e ci rendiamo conto che la grazia è infinita. La grazia, amici miei, non ci chiede altro che d’essere attesa con fiducia e riconosciuta con gratitudine. La grazia, fratelli, non pone condizioni e non individua nessuno di noi in particolare; la grazia ci accoglie tutti nel suo seno e proclama un’amnistia generale. Perché misericordia e verità si sono incontrate, e giustizia e beatitudine si sono baciate!”.
La gioia del cibo, lungi dall’essere un’esperienza meramente estetica, ha sprigionato nei commensali sentimenti profondi, i loro sguardi prima un po’ gelidi si sono fatti sorridenti e gli occhi carichi di emozioni: alla fine del banchetto i silenzi e la paura iniziali sono scomparsi e gli abitanti di Berlevaag si scambiano baci e sguardi commossi. A pranzo concluso, Babette rivela a Martina e Filippa di aver speso tutto il suo denaro per quella cena. È dunque nuovamente senza soldi ma contenta di aver reso felici i suoi amici. Il paese ha superato le sue sorde discordie, e tutti insieme danzano tenendosi per mano sotto il cielo stellato.
“Il mio film preferito? È Il pranzo di Babette” ha detto più volte Papa Francesco. Che ne ha scritto persino nell’esortazione apostolica Amoris laetitia. Prima volta che un Pontefice nelle sue lettere ai cristiani parla di cinema. “Dal momento che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: ‘Regala e accetta regali, e divertiti’ dice il Siracide (14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo” (Amoris laetitia, 129).
Dunque Il pranzo di Babette non è semplicemente, come ha equivocato qualcuno, un racconto di come i piaceri della carne non si lascino sottomettere dai rigori dello spirito, ma anzi, mostra come proprio lo spirito abbia bisogno di questa generosa umanità, sparsa a piene mani da Babette, per avvertire davvero il senso di quel “Christentum” a cui Martina e Filippa sono state educate fin da bambine.
Ma la Blixen neppure voleva contrapporre banalmente una mentalità “cattolica”, più umana, più accondiscendente con i piaceri della vita a una tradizione “protestante” devota al rigorismo. Il suo piuttosto è un racconto in cui a tema c’è la forza della grazia che, come un “bel giorno” inaspettato, è destinata a cambiare la vita. È una piccola storia di paese che mostra quanto sia la grazia in grado di generare l’amore fraterno, e mai viceversa. Un apologo sulla gratuità che sola sa sciogliere le rigidezze del cuore umano, e che è l’unica misura possibile dell’amore.
Il gesuita belga Jacques Servais ha notato che il vecchio generale dice, en passant, che come alle nozze di Cana “la Grazia ha scelto di manifestarsi proprio lì, nel vino, pienamente”. Dunque, a ben vedere, nel racconto di Karen Blixen “il cibo non è poi così importante. Anche nel Vangelo di Giovanni è in gioco qualcosa di più del semplice bere e mangiare. Lo stesso vale per questo film, che, sebbene ruoti attorno a un pasto di sette portate, ‘non è un film sulla cucina’, né la cena è ‘fine a se stessa’, come il regista Gabriel Axel ha chiarito in un’intervista”. Perché, “come diceva il grande teologo Hans Urs von Balthasar, che condivideva la fiducia di Axel nell’unità tra lo spirito e i sensi: ‘È con il corpo e con l’anima che l’essere umano vivente sperimenta il mondo e, di conseguenza, anche Dio’”.
Ultimamente, dunque, Il pranzo di Babette racconta l’evento dell’Incarnazione. Per questo si potrebbe dedicare un momento a leggere questo racconto, o ascoltarlo, proprio in questi giorni di Natale (su Youtube lo si trova letto per intero sia da Laura Morante che da Lella Costa).
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