L’epidemia di peste forse più nota nella memoria storica e letteraria d’Europa è certo quella che tra il 1629 e il 1633 devastò l’Italia, la Germania, la Svizzera e la Francia. L’onda d’urto che essa ebbe non si limitò a al contagio e alle sue immani conseguenze di morte, ma sconvolse profondamente e l’opinione pubblica e le menti dei singoli: alla ricerca ovunque e dovunque d’un colpevole, di un “untore” (Manzoni docet) da metter alla gogna o al rogo, a seconda dei casi, come olocausto liberatorio d’ogni anatema pandemico.



Una siffatta e superstiziosa lettura assunse i contorni di un evento d’orrore e insieme di un affaire politico-sociale in una cittadina della Nuova Aquitania francese: Loudun. Qui durante l’epidemia s’era particolarmente distinto, per la sua generosa dedizione agli ammalati, un prete del luogo, Urbain Grandier. Curato di S. Pietro al Mercato e canonico di S. Croce, era costui un uomo colto, buon letterato, ottimo scrittore e parlatore, ma avventato e libertino assai, tanto da legarsi in varie relazioni – tra cui la moglie dell’Avocat du Roi e la figlia del Procuratore reale del luogo – e implicarsi in polemiche e litigi con personaggi ben in vista, come il vescovo di Poitiers o il cardinale di Richelieu in persona (per una questione di precedenze cerimoniali, ma si dice anche per un libellus famosus) o il padre Mignon, direttore spirituale del locale Convento di Sainte–Ursule.



Fu proprio in tal aristocratico cenobio che, all’indebolirsi del contagio, verso il settembre del 1632, cominciarono a manifestarsi fenomeni inquietanti, prima circoscritti alla madre priora, suor Jeanne des Anges, nata dei baroni di Belcier, e poi estesi alle altre suore. Su suggestione del padre Mignon e del fanatico padre Barre, la priora denunciò il curato per stregoneria, seduzione e commercio carnale au nom du diable e le altre suore testimoniarono in modo a dir poco spettacolare. Grandier venne subito assolto per mancanza di prove da un tribunale ecclesiastico e l’arcivescovo di Bordeaux intervenne per sedare residui clamori. I fenomeni nel convento tuttavia non cessarono e Grandier accusò Richelieu di macchinazioni a suo danno. Il cardinale allora distaccò un suo fiduciario, il barone Martin de Laubardemont, Grandier fu nuovamente arrestato e sottoposto al giudizio di una commissione di justitia raeservata, interamente laica ed esterna alla città.



Il 6 dicembre 1633 aveva così inizio uno dei più terrificanti processi della storia di Francia. La popolazione locale e tutto il regno di Luigi XIII vennero sconvolti dalle atrocità delle tortura perpetrate contro Grandier e dai furibondi esorcismi su Jeanne des Anges e le altre orsoline compiuti sulla pubblica piazza. La forza d’animo, il rifiuto d’ogni abiura, la fede tetragona in Dio da parte dell’accusato furono ammirati da tutti, ma i suoi ripetuti appelli al Parlamento di Parigi e al Consiglio del Re (il processo neppur prevedeva una difesa) rimasero inascoltati. Il 28 agosto 1634 Urbain Grandier veniva condannato e il giorno stesso saliva al rogo davanti a seimila persone convenute sulla piazza di Loudun da ogni parte di Francia.

Se la cronaca dei fatti in piena luce è senz’altro questa, l’intrico delle ombre che dietro vi si agitano è ben più complesso. Vale qui la celebre frase di Guillaume de Marescot: “pauca a morbo, multa ficta, a daemone nulla”. E la fictio, meglio il peccato originale, era nella città. In quella Loudun ugonotta ed irrequieta, ma nobile e accreditata a corte, tanto da volersi atteggiar a indipendente, da voler affermarsi non docile al progetto accentratore e unificatore pensato per la Francia di Luigi XIII da Richelieu.

Sì che nel 1631, in piena peste, proprio quel barone de Lauberdemont era già sceso da Parigi con l’incarico di demolire – a scanso di una nuova Rochelle o d’aspirazioni a un decentramento su modello orangista – la fortezza cittadina. Trovando davanti a quei bastioni la più fiera opposizione da parte del governatore Jean d’Armagnac (misteriosamente assassinato il 28 aprile 1632) e dello stesso Urbain Grandier. Che sembrò a tutti la figura ideale da offrirsi all’infamia. Sì, per il suo spirito liberale e libertino; sì, per aver rifiutato lo stalking della mère prieure di lui notoriamente infatuata; sì, per l’orgoglio derisorio sbandierato davanti al cardinale di Richelieu; sì infine perché in lui Parigi vedeva un pericoloso emulo di Jean Guiton o del duca di Buckingam. Ma anche e soprattutto perché la peste aveva lasciato un segno nella città: Loudun era stata colpita da una piaga biblica, alla quale la ritenuta possessione delle orsoline dava finalmente l’esegesi sperata, quella d’una causa straordinaria, diabolica, altra dalla “natura umana”, importata dal basso, forse pel tramite di qualcuno, certo “possibile”.

Credere o non credere agli psicodrammi del convento e dalla piazza contava poco. Gaston d’Orléans, fratello di Luigi XIII, ne scriveva beffardo a Richelieu stesso: “Monsignore, io sono rapito di apprendere che i diavoli di Loudun hanno convertito Vostra Altezza”… L’importante era cogliere l’occasione per purificare la città: dai suoi aneliti protestanti e autonomisti, dai suoi personaggi più geniali e imbarazzanti, dai soffi mortiferi che avevano invaso i corpi e le menti. Il rogo del 28 agosto 1634 sarà creduto una sanificazione e una santificazione universale.

Non per madre Jeanne des Anges, però: mitomane, isterica, satura delle pozioni allucinogene fornite a lei e alle consorelle dagli speziali di Loudun, ostenterà presto improbabili stigmate e diventerà la protetta del visionario gesuita Jean-Joseph Surin, che fomenterà il suo protagonismo fino voler accreditare lei come santa e se stesso come mistico. Lui autore di Le Triomphe de l’amour divin sur les puissances de l’enfer, lei del Livre de mes possessions. 

Il secolo però andava cambiando, i Lumi stavano per accendersi e pochi dopo il 1650 presteranno loro attenzione.