L’eclisse del termine “pudore”, nei vari stili di linguaggio, da quello familiare a quello politico, è oggi forse dovuta al tramonto di una società fortemente segnata da una morale: una morale impositiva di regole e modelli di comportamento, la cui trasgressione genera quello stato di coscienza che viene chiamato “pudore”.



L’esperienza del pudore sembra essere l’altra faccia del rispetto come ciò che me ne viene dal rapporto con l’altro. Pudore, nel suo etimo, significa mi dò pena, mi preoccupo, mi sforzo (dalla radice peud); un significato abbastanza inusuale, sorprendente se confrontato con l’attuale significato del termine.



Nel dialogo platonico Protagora Zeus, impietosito dagli uomini che nelle città si scannano a vicenda, invia due Dei, Dike (la Giustizia) e Aidos (il Pudore).

In questo testo Platone annoda la questione del politico alla questione dell’essere giusto e pudico. Il pudore sembra essere definito come ciò che torna politicamente dall’essere giusto. Si tratta quindi di una concezione del pudore non tanto e solo come atteggiamento morale, ma piuttosto come di un ingrediente essenziale dei legami sociali. Il pudore sembra interrompere l’aspetto violento della giustizia, se l’essere “giusto” è praticato come un’affermazione autonoma di sé stessi. Il pudore protegge l’io e protegge anche l’altro dalla violenza inestirpabile che sembra affettare tutti i rapporti.



Per quale motivo, ad esempio, un soggetto, davanti ad un ascensore, in procinto di entrarvi, di fronte ad un suo simile che si accinge allo stesso atto, ha un attimo di esitazione e dice magari: “Prego, prima lei!”? Perché tale soggetto prova un disagio a passare per primo? Credo perché tale soggetto temerebbe di compiere una violenza più sottile, meno esplicita che l’atto stesso di passare, ma ancor più inquietante perché la sua origine si situa in una scena interna all’io, prima ancora di esprimersi in modo pubblico.

E perché, in base a quale pudore, enigmatico principio, se volessi di proposito sfidare le incerte odierne regole morali, e per di più approfittando del clima spesso lassista e permissivo della società in cui viviamo, se – continuo ad esporre la mia ipotesi –  uscissi di casa completamente nudo ed attendessi alle normali occupazione in questo stato, ritengo che proverei vergogna, sentimento tradizionalmente associato al senso del pudore?

Perché mai la vergogna e il pudore? Ritengo perché questa mia nudità esibita provocherebbe una sorta di corto circuito, di intromissione violenta nella “interiorità” del mio simile. Erotismo o familiarità o confidenza o rispetto sarebbero collocati, alla lettera, “fuori luogo”. Il mio atto invaderebbe la realtà dell’altro impedendogli proprio di essere accolto nella mia interiorità. Detto in una parola la mancanza di pudore sembra strutturarsi come negazione radicale dell’alterità.

Il pudore si situa nel più intimo dell’io, sorta di segreto ineffabile (in questo senso “intoccabile”) che permette che l’altro sia accolto originariamente all’interno del mio giudizio e del mio atto.

La mancanza di pudore oggi è stupefacente e credo sia questa la causa misconosciuta della corruzione, della mancanza di responsabilità sia da parte di coloro che dirigono la società sia da parte dei cittadini. Non si tratta di lamentarsi per la crisi dei valori della società antica. Si tratta piuttosto del coraggio di saper porre delle questioni sull’origine inconfessata di un’etica che si sta disfacendo.

In tali modalità sembra comunque eroso il riferimento ad una alterità, ad una esperienza dell’altro come ingrediente generativo della identità del soggetto. Nell’orizzonte odierno e nei linguaggi in grado di esprimerlo funziona una impotenza, strutturale, a pensare il soggetto come differente dall’esercizio di un controllo cosciente su di sé e sulle cose. In questo panorama i legami possono funzionare solo come regole.

Si tratta di regole il cui obiettivo è evitare la distruzione dell’esperienza stessa dei soggetti, della loro stessa esistenza, evitare cioè la violenza. Ma queste regole si originano ed anche ricadono fuori dal luogo e dalla struttura dell’io.

La società odierna sembra incapace di cogliere il rispetto, e dunque il pudore, in termini, per così dire, “ontologici”, cioè nel riconoscere ed ospitare un punto sorgivo, precedente e generativo dei rapporti e dei legami.

D’altra parte la fragilità del sentimento è sostenuta dalla identificazione immaginaria. La identificazione immaginaria è ad esempio l’“altruismo”, la moralità come gioco raddoppiato del fantasma dell’altro.

Mi sembrano perciò non solo “bacchettoni” ma anche un filo deliranti molti discorsi odierni sulla crisi della morale. Essi sembrano scambiare la causa per l’effetto. Non si tratta di prendere atto, anche in modo accorato, di una devastazione, ma di interrogarsi sull’avvenimento (comunque di avvenimento si tratta) di un tipo di uomo che, incredibilmente, ritiene di potersi sottrarre all’esperienza, essa sì originaria ed anche confortante, di una mancanza piuttosto che di un possesso. Da una alterità piuttosto che da un mortifero solipsismo.

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