Ci sono notizie di straordinario impatto emotivo di cui la quasi totalità dei mass media non si occupa nemmeno per sbaglio. O lo fa con troppa leggerezza. Impegnati a “celebrare” la quotidianità della politica nazionale in tempi di pace e gli sfaceli statistici del Covid in tempi di “guerra”, giornali, radio, televisione e ogni sorta di social network non si accorgono che esiste anche “altro”, che questo “altro” ha il potere di farci alzare la testa dalla melma quotidiana congegnata intorno alle solite notizie mescolate in salsa trita e che la gente è stanca di un’informazione preconfezionata che assopisce le coscienze e annulla i desideri (a proposito: che sia giusto questo l’obiettivo del sistema italiano – e non solo – dell’informazione-disinformazione?).



Lasciamo aperta la risposta perché non è di questo che voglio occuparmi qui. Fra le notizie–non notizie che la cronaca recente ha volutamente ignorato, ne segnalo tre. La prima: gli armeni del Nagorno-Karabakh hanno bruciato le loro case pur di non lasciarle in mano agli azeri che, in base all’accordo di pace fra Armenia e Azerbaijan, stanno occupando le loro terre; se ne sono andati (strano destino, quello del popolo armeno, il primo ad aver subito il genocidio nel XX secolo e ancora in cerca di un luogo dove vivere in pace) liberando anche i cimiteri dai propri morti, portati via con loro.



La seconda: la moglie di un ristoratore italiano che ha voluto “tenere aperto per Covid” regalando i pasti a chi non ha un euro con cui pagare, intervistata dalla Rai ha giustificato il gesto con una semplice frase: “Siamo credenti, non possiamo ignorare chi soffre di fame”. I cristiani armeni e i cristiani italiani, ciascuno per la propria parte, ciascuno nella propria, diversa difficoltà: ma le immagini degli incendi e quella dell’intervista sono passate come acqua sul marmo, nessun giornalista ci risulta che le abbia riprese.

Ma è la terza notizia che squarcia il silenzio con forza ancora maggiore. Nella casa di Bozena Janina Zdunek, partigiana polacca molto nota nel suo Paese (“una grande patriota per tutta la vita” la definisce l’Associazione Veterani Polacchi in Svezia), sostenitrice della necessità storica di tenere in vita pagine nascoste della seconda guerra mondiale come quella relativa al massacro russo di soldati polacchi a Katyn, deceduta in Svezia il 2 giugno 2015 a 93 anni dopo essere miracolosamente tornata a casa da tre anni nei campi di sterminio nazisti, è stato rinvenuto un quaderno di poesie che lei stessa e le sue sventurate compagne scrissero durante l’infinito tormento di quella prigionia.



Trentadue pagine fitte di nomi e di date, un rosario di donne che giorno dopo giorno, grano dopo grano, finivano nelle camere a gas. Janina, fervente cattolica, e le sue compagne seppero mantenere la testa fuori dal fango e non vollero che il mondo scordasse nemmeno un nome di chi era “uscito per il camino”. Ma non è nemmeno questo, per quanto importante, che illumina del tutto il quaderno delle prigioniere polacche. Ad un certo punto, probabilmente per il vertiginoso aumento delle decedute o forse per l’impossibilità di conoscere l’identità di ciascuna, i nomi cedono il posto ai versi e il quaderno diventa un piccolo, prezioso, irripetibile libro di poesie. Straordinario, questo aggrapparsi alla poesia per sfuggire alla morte.

In un luogo che è l’essenza stessa del male, del rifiuto della ragione, della fine di ogni umano orizzonte. Straordinario, cioè, che per sopravvivere al nulla Janina e le altre si siano affidate al tutto. Perché, come ripetono i poeti, “la poesia non serve a nulla: solo a dare un senso alla vita”. Può essere un dipinto, una scultura, una musica, un tramonto, un sorriso, un abbraccio, un bacio: tutto può essere poesia. In questo caso, sono proprio dei versi, proprio il genere letterario più osannato e più negletto, più profondo e sempre meno studiato, più vicino all’anima, ma più elitario (quanti libri di poesia si vendono nelle librerie?). Stordisce  la mente e il cuore che nel deserto tetro di un campo di concentramento sbocciassero i fiori profumati delle poesie. Perché è una contraddizione, un non-senso della ragione. Si può forse combattere il male con un endecasillabo? Ebbene sì, si può.

Il filosofo materialista Adorno sostenne che “scrivere poesie dopo Auschwitz è un gesto di barbarie”: aveva torto. È, invece, un gesto di amore. E stupisce anche il fatto che Janina abbia gelosamente conservato quel minuscolo quaderno alla sua uscita dal lager, durante le peripezie del suo ritorno alla normalità e perfino quando era riuscita a rifarsi una vita sposandosi e avendo dei figli. Uno di loro ha ritrovato il prezioso manoscritto in un armadio di casa, dove la mamma lo aveva tenuto nascosto per oltre settant’anni. L’esistenza della donna era nota a tutti, le sue sofferenze erano state raccontate e divulgate. Eppure, quel quaderno dormiva sereno nel buio di un armadio, a pochi metri dalla luce di una cucina, un salotto, una camera da letto, sicuro che prima o poi sarebbe tornato alla luce. Janina non aveva voluto rivelarne a nessuno l’esistenza, nemmeno ai suoi familiari. Imbarazzo, vergogna, paura di non essere ancora capita dopo tanto tempo e tanta vita? Può essere. La malattia dell’incomprensione è comune a tanti sopravvissuti.

Cos’ha allora da insegnare un ritrovamento così fragile e tagliente (perché la parola può uccidere, ma anche svaporare agli occhi di chi non la sa accarezzare) ad una società che sembra fatta solo di siti internet e di link, di tecnologia e di numeri? Insegna che il male non può avere l’ultima parola e che anche una poesia può salvare la vita: “Teniamo alte le nostre teste rasate” è l’unico verso riportato nel dare la notizia del ritrovamento. Teniamo alte anche le nostre perché in epoca di (dis)informazione globale non esiste solo la dittatura dei campi di concentramento.