In Usa sono ancora calde (come dicono i romanzi) le ceneri degli incendi appiccati durante i tumulti razziali, ma fin dall’inizio alcuni (pochissimi) non avevano poi avuto completamente  torto nel ridimensionare gli eventi di questo mese: forse non è stata  proprio una svolta epocale, non è stato  proprio un caso di “Mai, nella storia della repubblica…”; e questo, non per sminuire l’importanza di ciò che è accaduto, al contrario: per riportarci dalla cronaca alla storia.



La ferita aperta fin dalla nascita degli Stati Uniti (una repubblica di proprietari di schiavi, come diceva Marx a proposito della  democrazia nell’antica Atene) non si è rimarginata e in fondo non si chiuderà mai; dunque ha causato, sta causando e causerà ricorrenti esplosioni. La rilevanza dell’importante saggio di James Baldwin del 1963, The Fire Next Time (“La prossima volta, il fuoco”) consiste nel paradosso che questa “prossima volta” in un certo senso si è già verificata (i tumulti che riappaiono), tanto da divenire ripetitiva, ma in un certo altro senso non avrà luogo, perché una vera palingenesi non avverrà mai.



Ciò non significa che dal tardo Settecento a oggi ci sia stata solo una ripetizione dell’identico; tutt’al contrario: i mutamenti sopravvenuti (basti pensare al grande movimento abolizionista) contano almeno tanto quanto l’incombere continuo della tragica origine. Del resto le tragedie, come è nella loro natura, hanno anche risvolti tragicomici. Un esempio di questi risvolti è la strumentalizzazione elettorale in corso: prevedibile, ma che continua a causare disagio per il suo lato sordido (elemento oscuro ma inevitabile di quella che si chiama la dialettica democratica).

È cominciata infatti la caccia al cosiddetto “voto nero”: una brutta espressione, e uno dei tanti simboli dell’inconfessabile legame sotterraneo fra razzismo e antirazzismo (Freud ha inaugurato tutta una letteratura, sul “narcisismo delle piccole differenze”). Ogni polemica “di colore”, nell’una o nell’altra direzione, finisce con l’imbrattare chi vi fa ricorso; e, come in ogni altra forma di demagogia (linfa vitale della politica), affiora un aspetto leggermente pornografico.



Esiste però almeno una differenza che vale la pena di sottolineare. Nello scontro in corso, il rancore della comunità in lotta produce rabbia, che si esprime con forza, nel linguaggio così come in altri  segni e gesti; mentre la paura della comunità in posizione di difesa produce rancore; che non si esprime. È forse per questo che il silenzio delle statue è tanto esasperante, per i radicalizzati. Ma molte cose ribollono, sotto il silenzio: e l’antico topos della statua che a un certo punto trova il modo di farsi sentire (come la famosa Statua del Commendatore) non è ingenuo quanto sembra. Sarà la rabbia o sarà la paura, a dare la spinta decisiva per la vittoria? Se la dialettica si ridurrà a questo la scelta elettorale sarà tragicamente deformata, perché dominata dall’ombra dell’odio.  

Viene allora spontaneo il desiderio di un qualche intervento intermedio: il quale sorga da quel tipo di discorso almeno potenzialmente riconciliatorio che è prerogativa, non soltanto della religiosità nei suoi vari aspetti, ma più generalmente di ogni forma di spiritualità e di etica. Tali forme di riflessione e di azione non possono emergere dalle masse (i due partitoni americani in lizza sono, come ogni altro partito in ogni paese del mondo, essenzialmente luoghi di alienazione, e in questo senso il gran libro di Elias Canetti Massa e potere degli anni Sessanta non è ancora invecchiato), ma debbono nascere da esperienze individuali. Un solo esempio, piccolo ma significativo.

L’Accademia dei Poeti Americani (l’America, giustamente, non prova alcun imbarazzo a mantenere questa istituzione nazionale) invia ogni giorno ai suoi lettori una nuova poesia, nella maggior parte dei casi con testi di poeti da scoprire (ecco un modello su cui si potrebbe riflettere in Italia). In molti casi, peraltro, queste poesie funzionano come una sorta di braccio secolare del politicamente corretto, il che ne diminuisce alquanto l’interesse e l’efficacia.

Una poesia recente, invece, si impone per la sua freschezza e il suo senso di dignità, e vale la pena di riprodurne una parte. Si intitola Elogio, e il suo inizio suona abbastanza ingenuo: “Oggi io farò elogio. / Elogerò il sole / che inonda con la sua luce / questo nostro oscuro vascello …”. Ma presto appare l’abile strategia dell’autore, che con la sua ripetizione dell’elogio (in uno stile anaforico che ricorda Walt Whitman)  mette in risalto una situazione tutt’altro che idillica: “Elogerò il terreno / che non ha banchettato con queste ossa. /Elogerò la cassa / che non è diventata rifugio della carne. / Elogerò  i proiettili /che non sono venuti a lavorare, dandosi malati./ Elogerò il grilletto / che si è preso una vacanza. / Elogerò il gesso / che oggi non è servito a profilare un cadavere. / Elogerò il corpo / per il suo essere ancora un corpo / e non una pietra tombale. / Elogerò il corpo, / per essere un corpo e non un rapporto della polizia. / Elogerò il corpo / per essere un corpo e non un ricordo / che nessuno vuole dimenticare”.

Quello che (per fortuna) non è detto, in questo testo del poeta Angelo Geter, è altrettanto significativo di quello che è detto. Manca ogni riferimento “di colore”, ogni asserzione identitaria, ogni invettiva. Insomma, questa è una poesia non un manifesto (cosa che, come accennato sopra, non si può dare per scontata, nell’attuale panorama della scrittura negli Usa). I gesti di dignità eloquente in poesia e non, come questo, sono i gesti che stanno salvando, non si dice la grandezza dell’America (queste sono parole imperiali), ma quello che vi è di straordinario nella civiltà statunitense.