Ci sono gli uomini e ci sono le stelle.

La pelle e il fuoco. L’acqua e l’ardore.

Ci sono quelli che per vivere hanno bisogno di stare con i piedi per terra e quelle cose invece che sono gas incandescenti nel vuoto cosmico… ma si incontrano, per miracolo, a un certo punto in un posto che è un non luogo: è il tempo.



Allora questa stella, certa del suo appuntamento, esce dal buio eterno cometa lucente e gassosa, come una sposa scarmigliata alza lo strascico incandescente e si mette a correre, sparge lustrini e lacrimeperle, corre scalza e irrispettosa, focosa per incontrare lui, per accovacciarsi sopra il suo capo, inanellarlo. Lui, un Re Bambino.



Gli uomini la possono vedere bene, persino nei cieli sbiaditi sui bordi del buio, piovono loro in testa frammenti di rivelazioni, i più se li spolverano giù dalle spalle, ma c’è chi leva il capo, apre la bocca.

Lei comincia a raccontarli, come fa una mamma, naturalmente. Tre chicchi di racconti.

Narra la favola di quei Tre Uomini d’Oriente e del perché, lasciato tutto indietro, si incontrino e si mettano a inseguire una Cometa che passo dopo passo rimette tutto a posto.

L’altra favola parla di chi, povera serva, invece insegue, si apposta, per sorprendere il Rabbino e porgergli la sua richiesta straordinaria.



Infine, ma questo è l’inizio di tutto, c’è solo una gatta che cerca un riparo.

La mamma narrante srotola i grandi viaggi dei piccoli protagonisti e li chiama con nomi esotici e magici che suonano come nenie oppure schioccano in bocca.

C’è Hinnenì: “Io sono la serva, l’ultima degli ultimi” e il rabbino Thaomà che “…narrava l’attesa di un grande Re che doveva venire…” due attori in cammino tra le strade di Bet Lehem; all’inizio è la donna che lo tallona e alla fine sarà proprio il maestro della Torah a mettersi a cercare il suo viso vagando “…verso il chiarore del colle, attratto dalla luce e dal canto angelico, sbalordito per la gioia inconsueta che si poteva quasi toccare nelle voci dei pastori e dei loro bambini, nelle parole delle donne”.

Nel deserto a causa di un piccolo incidente si incontrano Aréf, il Mobadh, ministro di Ahura Mazda e Hàdi, il governatore di Gerrha, consigliere dell’Imperatore Fraatace e dottore di erbe e unguenti; due nomi diversi come la notte e il giorno, al tramonto attorno al fuoco aprono i loro cuori e l’uno curerà le ferite dell’altro mentre Nasser, il fedele soldato nel cui petto ogni tanto si rifugia il figlio del suo comandante, confessa scettico al saggio Arèf che proprio il figlio è un’angoscia per Hàdi: “…Così grande da metterlo in strada con tutta la corte dietro a una stella, senza neanche saper bene dove andare; lo ha fatto impazzire!”.

Un figlio che segue una stella che segue il Figlio dell’Uomo.

È una mamma che nella notte caracolla sull’asino con le mani sulla pancia e anche lei attende l’ora del suo bambino, mentre suo marito Yoseph si ostina a bussare alle case già colme di uomini approdati come ondate per il censimento, supplicando un rifugio; loro due miseri naufraghi con addosso una profezia di angeli e lo sguardo degli astri.

È una mamma che narra e lo ha scritto.

Una donna che nomina nomi e fa accendere fuochi, ascolta gli sguardi dei muti e veglia il sonno dei figli, i sogni; anche dei nostri figli, nati dopo duemila anni che si raccolgono nell’incavo del collo appoggiano la guancia al petto e ascoltano le parole suonare tra le corde vocali.

Possiamo aprire il libro – Silvia Fornasari, Il Re Bambino. Racconti di Natale (San Paolo, 2022) – e pronunciare.

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