“Ringrazio anzitutto il Buon Dio, che mi ha fatto nascere in una famiglia cristiana, onorata e rispettata”. Più che un testamento, una lucida e consapevole dichiarazione di fede cristiana. A renderla a dir poco inusuale è il fatto che il documento olografo, privo di cancellature, datato 21 febbraio 1977, appartiene ad Enrico Riziero Galvaligi, generale dei Carabinieri assassinato al numero 13 di via Gerolamo Segato in Roma intorno alle ore 19 del 31 dicembre 1980 di ritorno con la moglie dal Te Deum, per mano di un commando di brigatisti rossi.



Lo chiamarono per nome, mentre stava per rincasare, porgendogli un cesto natalizio, il destinatario mise mano al cappotto per cercarvi una mancia, ma sotto il regalo partirono cinque colpi di pistola, due dei quali andarono a vuoto e tre lo colpirono in pieno cuore.

Dopo aver ricoperto ruoli di crescente responsabilità in giro per l’Italia, da responsabile del coordinamento delle carceri di massima sorveglianza (dov’erano prigionieri terroristi di ogni colore) represse – senza spargimento di sangue – la rivolta delle Br nel penitenziario di Trani: era il 28 dicembre, tre giorni prima della sua fine.



Di quella morte e, ancor più, di quel testamento la storia della nostra Repubblica pare aver perso memoria. Fuori dall’ambito strettamente militare al quale Galvaligi apparteneva (che gli ha dedicato caserme e monumenti in diverse località italiane) e alla ristretta cerchia delle sue amicizie, anno dopo anno, governo dopo governo, generazione dopo generazione accade sempre così: la polvere del tempo sembra soffocare – ed è un paradosso – più i momenti bui di quelli gioiosi del nostro passato.

Eppure, la figura del generale varesino (era nato a Solbiate Arno l’11 ottobre 1920) spicca per equilibrio e dedizione negli anni peggiori del terrorismo. Brinzio, 800 abitanti a ridosso del capoluogo Varese, era il luogo dove aveva svolto la lotta partigiana dopo aver combattuto in Grecia (dove, per aver salvato la vita ad un commilitone, si era meritata una medaglia al merito), dove aveva conosciuto la coetanea Federica Bergami – ivi sfollata dalle campagne del Bolognese – che poi sarebbe divenuta sua sposa –, e dove sarebbe tornato ogni volta che gli impegni glielo consentivano, soprattutto d’estate, congedata fuori paese la scorta che solo il Comando di Varese gli affiancava – per vivere la vita semplice della provincia.



Nel piccolo cimitero che guarda in faccia il massiccio di Campo dei Fiori venne sepolto, presente il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il 3 gennaio 1981, il giorno dopo le solenni onoranze ricevute a Roma dalle massime autorità civili e militari. Qui, con un anno di ritardo causato dalle norme antipandemiche, l’amministrazione comunale ha ricordato di recente i quarant’anni dall’assassinio. Nella piazza dedicata al generale si sono svolti brevi discorsi commemorativi alla presenza del figlio Paolo, anch’egli generale dei Carabinieri; nulla di straordinario o di sopra le righe: al di là dei militari in alta uniforme, delle presenze gerarchiche dell’Arma in provincia e del trombettiere che ha suonato il Silenzio, quasi il ricordo di un gruppo di amici che non si rassegna a dimenticare.

“La più grande eredità di papà è la capacità di non serbare rancore” ha ricordato Paolo Galvaligi. Una virtù tramandata di padre in figlio: “Quando hanno arrestato le due brigatiste responsabili del commando che ha ucciso mio padre (era l’estate scorsa, per Marina Petrella e Roberta Capelli catturate a Parigi lo Stato italiano è in attesa di conoscere a gennaio il responso della richiesta di estradizione, ndr), ho preso atto del completamento dell’indagine, non ho esultato, non auguro il male, non ho soddisfatto un senso di vendetta”.

In un lirico articolo per il Corriere della Sera uscito a poche ore dall’attentato, Giovanni Testori scrisse: “Il testamento ci dà testimonianza di un’altra Italia che è poi la vera”. A volte ci chiediamo se sia ancora la maggioranza del Paese.

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