Qual è il segreto dell’amicizia e che esperienza fa vivere? Questa domanda scaturisce dal rapporto straordinario e generativo tra Dostoevskij e Solov’ëv: due grandi intellettuali distanti a livello generazionale (trentadue anni di differenza), che hanno lasciato un’eredità valida ancora oggi per cogliere ciò che “strappa dal nulla”.



Si può tentare di rispondere alle domande, non in maniera frontale e analitica, ma cercando di sorprendere alcuni aspetti che chiariscono il percorso della ricerca. Il legame tra i due scrittori, ad esempio, già dall’inizio (1873), non è un comodo rispecchiarsi dell’uno nell’altro, un’affinità di interessi o un’attenta benevolenza, ma un’asimmetria produttiva. Il giovane Solov’ëv guarda allo scrittore, già affermato e famoso, come una persona a cui porre domande significative e con cui confrontarsi su individualismo, razionalismo e positivismo. Ma, curiosamente, Dostoevskij vede in Vladimir, nonostante la giovane età, qualcuno di più grande e di autorevole. A Fëdor ricorda, infatti, Sidlovskij, una persona influente e significativa del suo passato. E, inoltre, il suo volto gli rammenta la “Testa di Cristo” di Annibale Carracci.



L’uno richiama all’altro, insomma, la memoria di qualcosa di più grande, con un invito a imparare. Non a caso, il grande scrittore nel 1878 si reca ad ascoltare le celebri Lezioni sulla Divinoumanità del filosofo: un richiamo al Dio vivente, al Dio tutto in tutti. Ognuno, ancora, vede nell’altro una specifica e opposta originalità che non è obiezione a sé, ma conferma di un misterioso legame nascosto. Dostoevskij indaga il sottosuolo e il basso dell’umano, fino ad arrivare agli  abissi dell’abiezione, alla morsa del tormento, al sussulto del tremore. Solov’ëv, invece, è preso dalle altezze mistiche della Sofia e da un riso, talvolta, stranamente contagioso. Entrambi considerano l’amicizia non come mero conforto, ma come compagnia al destino nei momenti cruciali della vita, proprio quando la vita urta e ferisce. È Solovëv, infatti, ad accompagnare Dostoevskij, dopo la morte dell’amato figlio Alëša, al monastero di Optina Pustyn. Così scrive Anna Snitkina in Dostoevskij mio marito: “pregai Solov’ëv, che in quei giorni di dolore veniva da noi molto spesso, di persuaderlo ad andare con lui a Optina Pustyn’ dove egli si proponeva di passare l’estate”.



Il vincolo tra i due, inoltre, non è mai un sostare insieme nei pressi di “una ben rotonda verità”, o “la ricerca di un posto al sole”, ma un rilancio e una provocazione ad andare fino in fondo al proprio essere e al proprio desiderio, cercando il punto sorgivo di tutto. Stakheev racconta che, in maniera a dir poco sconcertante, Dostoevskij, pur confermando la bontà dell’amico, in una circostanza, disse a Vladimir che avrebbe avuto bisogno di  “due-tre anni nei campi di lavoro”, sottolineando, implicitamente, che la bontà senza l’unione alla sofferenza di Cristo è vana. E Solov’ëv, a sua volta, porta a Fëdor la copia della “Madonna Sistina” di Raffaello, da lui tanto amata, indicandogli, tacitamente, che ciò che è amato non è mai troppo amato, poiché l’io deve tendere a un per sempre e a un aver sempre davanti l’oggetto amato.

Nel loro rapporto vive,  anche,  una comune certezza che fa sì, addirittura, che l’uno possa parlare a nome dell’altro, nel Nome dell’Altro. Rispondendo a una lettera di Peterson, riguardo alle idee di Fëdorov, il 24 marzo 1878, il genio russo scrive che lui e Solovëv credono in una letterale, effettiva e personale resurrezione e che essa avverrà sulla terra. Si tratta, qui, di una forte ed evidente vicinanza e consonanza spirituale. Volgin, a tal proposito, afferma in Poslednii God Dostoevkogo (L’ultimo anno di Dostoevskij) che Solov’ëv è stata una delle rare persone a cui lo scrittore si è sentito veramente vicino negli ultimi anni della sua vita. E certo colpisce, anche, la medesima e vibrante tensione dello sguardo dei due: insieme verso la stessa profondità, lo stesso abisso. Entrambi, alla ricerca delle cose ultime, scrutano il mysterium iniquitatis e ciò che lo vince. La falsificazione del bene operata dall’Anticristo e la correzione dell’opera di Cristo fatta dal Grande Inquisitore, nei loro celebri testi, non hanno l’ultima parola, non hanno il potere di cancellare la Bellezza suprema: essa è più forte, perché totalmente vera.

Si può dire, allora, a giusta ragione, che nella loro unità c’è una reciproca e feconda compenetrazione. L’uno è presente all’altro e nell’altro. Alcuni tratti del filosofo sono rinvenibili nell’Alëša de I fratelli Karamazov e di Anna Snitkina in Ivan Karamazov. E anche il tema del Dio vivente, caro al filosofo, è presente ne “Il visitatore misterioso” dei Karamazov. E c’è aria di parentela, certamente, tra l’universalismo cristiano dell’entusiasmante Discorso su Puškin (1880) di Dostoevskij e il centrale concetto di unitotalità di Vladimir Sergeevič. Per i due straordinari profeti v’è, innanzitutto, un punto di partenza: la condivisione ideale del cristianesimo come Avvenimento. Così scrive Solov’ëv in Opravdanie dobra (La Giustificazione del Bene): “il vero cristianesimo … è un avvenimento assoluto – rivelazione della personalità perfetta del Dio-Uomo, di Cristo risuscitato corporalmente”.

Tale avvenimento non è statico, ma dinamico: avviene con una forza attuale presente. Nei Tre discorsi in memoria di Dostoevskij (ed. La Casa di Matriona), scritti tra il 1881 e il 1883, ricorre numerose volte il termine sila (forza). Il filosofo parla di forza divina, forza interiore, forza spirituale, forza benefica. Non si tratta di un’affermazione intellettuale o di un termine ben pensato, ma di un’esperienza reale: “Avendo sperimentato la forza divina nell’anima – una forza che si manifesta vittoriosa attraverso ogni infermità umana – Dostoevskij è giunto alla conoscenza del Dio e del Dio-Uomo”. Secondo il filosofo,  la presenza di “un di più” è la cifra e la peculiarità dello scrittore. Un di più, segretamente, in movimento nelle loro vite, capace di unire, vincendo il nulla.