Tra due anni la morte del Sommo poeta è al 700esimo anniversario. La notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321, Dante Alighieri muore di malaria a Ravenna, suo ultimo rifugio nell’esilio, lontano dalla sua amata e odiata Firenze. Tra due anni il mondo intero si troverà a ricordare i 700 anni dalla sua morte: e già non si contano le celebrazioni in fase di organizzazione, non solo in Italia ma in tutto il globo.



Tutto questo fervore spinge a domandarsi che cosa, in un’opera di un autore cristiano, così lontana dalla nostra mentalità, trovi una così grande corrispondenza anche nei lettori odierni, da chi vi accosta per la prima volta a chi lo studia da decenni. I motivi “collaterali” possono essere tanti: il linguaggio, la portata immaginifica, la densità concettuale, le storie raccontate, l’afflato politico… ma c’è qualcosa che il poema suscita nel nostro animo (e anche in quello degli studenti di scuola superiore più “distanti” dalle materie letterarie) che sfugge a tutto questo. È come se, implicitamente, Dante nella Commedia puntasse dritto al cuore di chi lo ascolta. Molto più direttamente forse di chi, come Petrarca, se lo pone come obiettivo esplicito. Ma come può accadere questo?



Uno studioso americano, Charles S. Singleton, uno dei più acuti interpreti della Commedia dantesca, ha identificato una volta per tutte la natura dell’allegoria del poema che affascina tutto il mondo. Egli infatti, a metà degli anni 50, ha per prima cosa precisato come la cultura medioevale distinguesse – generalmente – due tipi di allegoria o di simbologia.

La prima, definibile come allegoria dei poeti, è “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, sotto delle favole, secondo le parole di Dante stesso nel Convivio. È tale per esempio l’allegoria per cui, nell’immagine di Orfeo che ammansisce le bestie e muove le pietre con il suo canto, vediamo in realtà rappresentata la virtù del saggio che fa diventare veramente uomini coloro che altrimenti sarebbero come bestie, e fa muovere il cuore di coloro i quali, senza ragione, sarebbero come bestie.



Ma il Dante della Commedia fa un passo avanti. Descrivendo il proprio poema, nell’Epistola XIII inviata al dedicatario del Paradiso (nonché colui che maggiormente lo accolse negli anni dell’esilio), Cangrande della Scala, Dante dichiara esplicitamente di aver costruito tutta la complessa architettura del suo lavoro intorno a un concetto di allegoria diverso da quello dei poeti, e affine invece a quello definibile allegoria dei teologi: l’esempio infatti impiegato in questo caso è biblico, ed è l’uscita del popolo ebreo dal paese d’Egitto. Dante ci spiega che, se si rimane alla lettera, leggiamo dell’esodo dei figli d’Israele dal paese d’Egitto; ma se passiamo all’allegoria, leggiamo della nostra redenzione di uomini per mezzo di Cristo. Non abbiamo più, qui, una menzogna usata per raccontare una verità nascosta; rinveniamo invece un fatto storico, l’Esodo dall’Egitto, che ha una sua fisionomia e un suo significato compiuti, ma che allo stesso tempo, allegoricamente, significa o figura (per usare un termine caro a un altro grande dantista, e diventato ormai termine-chiave negli studi sul poeta fiorentino) un altro fatto storico; non solo, figura il fatto storico centrale della storia dell’umanità, l’Incarnazione di Cristo, il perno attorno al quale si volge tutto il tempo umano.

Singleton prosegue, prendendo ancora le mosse dal testo dell’Epistola ma anche superandolo, affermando che, se le cose stanno come dice Dante, il suo viaggio nell’Aldilà sarà da prendersi come fatto storico, realmente accaduto, e il significato allegorico sarà da intendersi nel viaggio di qualunque uomo, hic et nunc, decida di intraprendere il cammino di salvezza che ha percorso Dante, e con lui fino ad oggi ogni cristiano su questa terra sulle orme di Cristo.

A questo punto conviene forse porsi una domanda: da tutte queste premesse, consegue che Dante veramente volesse far intendere di avere compiuto, concretamente, un viaggio nei tre regni dell’oltretomba? È, d’altra parte, la domanda che assilla chiunque approcci il testo dantesco con un minimo di sincerità di cuore, dallo studente liceale allo studioso accademico.

Nel caso di risposta affermativa, la nostra intelligenza si trova in ogni caso un po’ spiazzata: capisce infatti di trovarsi di fronte a un capolavoro poetico, e non dinanzi al testo di un mistico; percepisce una sorta di lontananza dai fatti che si raccontano, che risultano troppo sproporzionati (soprattutto alla mentalità odierna); e non comprende donde venisse a Dante una tale sicurezza nel descrivere l’oltremondo, le sue pene e le sue ricompense, e soprattutto – che ardire! – le collocazioni delle anime defunte.

Nel caso di risposta negativa, d’altra parte, il nostro cuore patisce mortificazione: trova infatti sminuita l’intima provocazione che, quasi istintivamente, si sente porta dal poema. Se tutto è una favola, perché sento il testo di Dante così vicino al mio desiderio di uomo? Da dove nasce l’ardore che suscita in me, per cui lo sento come legato al mio cammino qui e ora?

La risposta alla domanda che ci siamo fatti potrebbe essere, in realtà, sia negativa che affermativa. Dante non voleva che noi credessimo letteralmente a un suo viaggio compiuto nell’aldilà. Egli non era né un santo né un mistico; non poteva conoscere il destino delle anime ultraterrene (nessun uomo lo può, come lui stesso avverte più volte nel poema); sapeva di comporre “sotto il velame de li versi strani” (Inf. IX 63); e il suo fine è, dichiaratamente, poetico, e non altro.

Colui che può metterci sulla strada giusta è il più acuto fra i due figli di Dante che commentarono il poema, Pietro Alighieri. Egli afferma esplicitamente che solo uno stolto potrebbe pensare che suo padre abbia compiuto realmente il viaggio che racconta. Il focus va spostato in direzione della vicenda personale di Dante. Ed è in questo modo che credo possiamo comprendere meglio il senso allegorico del poema. Non abbiamo una finzione poetica che rimanda a una verità universale (il viaggio di Dante che rimanda al nostro viaggio di uomini, e al nostro esercizio della libertà): abbiamo una finzione che riveste un’esperienza reale, storica e concreta: l’esperienza di Dante che, perdutosi nel mezzo del percorso della sua vita, ha ritrovato la strada verso il proprio compimento attraverso una guida particolare, il suo autore, Virgilio, ma soprattutto attraverso la riscoperta dell’amore della sua donna, Beatrice: ella, nel momento più grande di prova per Dante, acquista finalmente tutto il suo valore di veicolo della grazia. Questa verità è quella che Dante intende come verità storica, e che allegoricamente prefigura l’esperienza, potenzialmente, di qualsiasi altro uomo nel mondo. L’esperienza di liberazione vissuta da Dante è la medesima che può fare l’uomo di ogni tempo.

Anche a questo riguardo dobbiamo essere grati a Singleton e al suo intuito. Egli legge la scena del ritorno di Beatrice, nel giardino dell’Eden al termine del Purgatorio, alla luce delle parole di san Bernardo, il quale parlando dell’Avvento spiega ai fedeli che la venuta di nostro Signore è triplice: con l’avvenimento dell’Incarnazione si è realizzata in carnem; alla fine della storia si realizzerà ad iudicium; ma ora, nella storia di ogni uomo, riaccade in mentem, nell’anima di ogni fedele. Cristo si rende presente anche oggi nell’anima di ogni cristiano attraverso la Grazia. Dante, nella sua genialità, ha saputo raccontare questa possibilità identificando Beatrice con la Grazia di Cristo, affermando così che quest’ultima non è (solo) un influsso divino, che agisce in noi misteriosamente: in secoli in cui si dibatteva di gratia creata (la forza divina che opera in noi) e gratia increata (Dio stesso), e in mezzo a discussioni che cercavano di evitare l’apparire, in teologia, di una quarta ipostasi oltre la Trinità, Dante è stato in grado di leggere con sincerità la propria esperienza, e di scoprire che il lavoro della Grazia in lui era cominciato e si era sviluppato in maniera tutta umana, attraverso un incontro carnale, e allo stesso tempo sicuramente divina, per gli effetti in lui che questo incontro aveva realizzato.

È per questi motivi che, leggendo la Commedia di Dante, ogni lettore sente intimamente rivolto a sé un invito a un confronto personalissimo; e forse sente suscitata in sé l’attesa di un incontro come quello che Dante ha vissuto, e che lo ha “di servo tratto a libertate” (Par. XXXI 85).