Giovannino Ricciardi nel 1946 aveva 7 anni. Nell’estate, con mamma Franca e i fratellini Antonio (dieci mesi) e Giuseppina (5 anni), s’era trasferito da Catania a Milano, dove il papà Giuseppe da tempo aveva aperto un negozio di tessuti. Giovannino aveva dato l’addio ai compagni della scuola elementare “Diaz” della città etnea e aveva cominciato una nuova vita, da emigrato. Era lui l’uomo di famiglia quando il papà, per motivi di lavoro, si assentava per brevi periodi da Milano. E quella sera del 29 novembre del 1946, nell’appartamento di via san Gregorio 40, toccò a lui tentare di difendere la madre da una sconosciuta con accento settentrionale armata di una spranga che s’era introdotta in casa con intenti minacciosi. Ma nulla poté il bambino di fronte alla furia di Rina Fort, che in un raptus di follia era venuta a vendicarsi per essere stata abbandonata dall’amante, il papà di Giovannino. Il piccolo cadde per primo sotto i colpi della Fort, definita dalla stampa la “belva friulana”, e poi vennero uccisi la signora Franca Pappalardo e i piccoli Giuseppina e Antonio.



Nella Milano dell’immediato dopoguerra la strage di via San Gregorio fu un segnale d’allarme: la fine del nazifascismo, non segnava anche la fine del male.

Molti giornali imbastirono subito sul dolore di quella famiglia di emigrati siciliani una sceneggiatura che andava a colpire i punti deboli del sentimento collettivo, primo fra tutti l’individuazione del mostro. E qui non c’erano dubbi: il mostro era la 31enne Rina Fort, la “belva friulana”. Così durante gli interrogatori la folla si accalcava davanti alla questura gridando: “A morte! A morte!”.



Caso volle che a riferire della strage per il Corriere della Sera e per La Sicilia (i due giornali più direttamente interessati al fatto) fossero due giornalisti-scrittori, Dino Buzzati e Antonio Prestinenza, entrambi adusi a scavare nella realtà per individuarvi un senso. E la lettura delle cronache dei due giornalisti, a distanza di quasi 75 anni, ci riserva non poche sorprese.

“L’altra sera – scrive Buzzati il 3 dicembre 1946 sul Nuovo Corriere della Sera – noi eravamo a tavola (…) quando poche case più in là una donna ancora giovane massacrava con una spranga di ferro la rivale e i suoi tre figlioletti. Non si udì un grido. Negli appartamenti vicini continuavano, fra tintinnio di posate e stanchi dialoghi, i pranzi familiari come nulla fosse successo, e poi le luci a una a una si spensero”.



La tragedia – per le modalità in cui era avvenuta e per le piccole vittime innocenti – richiama alla mente del giornalista-scrittore l’esistenza di una “specie di demonio che si aggira per la città”, perché in quella strage risulta alterata la misura stessa dell’umanità: non è pensabile che un essere umano possa arrivare a praticare tanto male. Perciò occorre riferirsi a un male più profondo, più diabolico, più invisibile che dalle profondità del reale riemerge a deturpare la convivenza umana.

Il 5 dicembre del 1946 Buzzati racconta dell’arrivo a Milano del papà 82enne e di uno dei fratelli di Franca Pappalardo Ricciardi. Ciò che colpisce il giornalista-scrittore è la “silenziosa dignità del loro dolore”, tanto che quei parenti arrivati da Catania dopo un lunghissimo viaggio in treno, risultano trasparenti alla folla intenta a inveire contro la “belva assassina”. “Non schiumavano per desiderio di vendetta – nota Buzzati riferendosi ai due parenti delle vittime – non singhiozzavano, non facevano scene d’occasione: chiusi in una silenziosa dignità di dolore, in cui c’era come un’antica sapienza di ciò che è la vita e una dura pazienza nel saperla sopportare. Cosicché del loro arrivo ci si era accorti quasi per caso”.

La stessa indifferenza riservata ai due parenti di Franca Pappalardo era toccata alle vittime: i cadaveri erano rimasti nell’obitorio per più di due settimane, mentre l’attenzione generale era rivolta alla “belva”.

Il 20 dicembre 1946,  Antonio Prestinenza così descrive su La Sicilia il triste ritorno a Catania delle salme: “Tornando a Catania, Franca Pappalardo e i suoi innocenti figlioli non sono più quelle spoglie orribili che una spranga di ferro ammucchiò in un terrificante gruppo nel breve spazio fra due usci e una parete, a via San Gregorio, e nemmeno i quattro lividi cadaveri ignudi stesi sotto un ruvido lenzuolo nel gelo di un obitorio (…) Sono una mamma e tre bimbi che tornano da un lungo viaggio e hanno bisogno di dormire. Non turbi una parola d’odio il loro ingresso a Catania”.

E, in un altro articolo in cui riferiva che il papà di Giovannino forse aveva anteposto i soldi e il piacere agli affetti familiari, sempre Antonio Prestinenza così scriveva: “Nel fondo della tragedia della famiglia Ricciardi c’è lo schifoso denaro. (…) Non è ricco in questo mondo avvelenato chi non si accorge che il denaro ha sapore di sangue. Ricco è chi si toglie il pane dalla bocca per nutrire un bimbo innocente, ricco è chi si piega con riverenza sul sonno di un bimbo innocente e comprende che tutto il mondo è nel respiro tiepido di un piccolo figlio”.

La cronaca nera superficialmente raccontata solletica la curiosità e gli istinti più bassi, rischia di trasformarsi in un “romanzo del dolore”, utile per catturare lettori e suscitare epidermiche reazioni dei lettori. Gli articoli di Buzzati e Prestinenza documentano, invece, che si può andare al fondo dei fatti, per rintracciare in essi un significato per la vita e pongono domande che ci aiutano a cercare un senso a quanto è accaduto.