Si chiamano Hazet 36, sono lunghe mezzo metro e pesano quasi tre chili. Fino a prima degli anni 70 erano uno degli attrezzi di idraulici e meccanici. Dopo diventeranno un’arma impropria nelle mani dei servizi d’ordine della sinistra extraparlamentare. Ci racconta bene a cosa servivano e il contesto, Nicola Rao – giornalista, prima direttore del Tg2 e vicedirettore del Tg1, oggi direttore della Comunicazione Rai – nel suo libro Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza (Piemme, 2024). Un racconto dettagliato e documentato, con citazioni di sentenze passate in giudicato, interviste, verbali dei collegi docenti, brani tratti da giornali dell’epoca. Tredici anni, a Milano, dal 1970 al 1983, di omicidi, ferimenti, mutilazioni, violenze fisiche e psicologiche, assalti a sedi di giornali e di partito, scontri con la polizia.
Fra le pratiche più utilizzate c’era quella del “cucchino”, l’aggressione di un gruppo di “idraulici”, armati di Hazet 36, a professori e/o studenti simpatizzanti di destra o presunti tali. “Circa duecento quelli denunciati (probabilmente sono stati anche di più)”, spiega Rao. “Calcolando una media di quattro-cinque aggressori e che diversi militanti abbiano preso parte a più di un cucchino, parliamo di circa sette-ottocento persone coinvolte in questa pratica. A cui vanno aggiunti i capi o capetti. Circa un migliaio di persone. Ebbene i militanti di estrema sinistra identificati, accusati o condannati per queste aggressioni sono stati meno di 100”.
Confermo quello che racconta Rao con un episodio personale. In quegli anni frequentavo la facoltà di Fisica in via Celoria a Milano. Un giorno, andando verso la biblioteca, vedo un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia che discutono animatamente con una ragazza di Lotta Comunista, organizzazione a loro non gradita. Ad un certo punto una Hazet 36 scivola da sotto l’impermeabile di un compagno, cadendo sul pavimento di marmo della facoltà. Un rumore sordo e agghiacciante risuona nell’aria. Il capo del servizio d’ordine, Roberto Grassi di cui parleremo dopo, guarda il compagno in malo modo. Lo riprende e poi se ne vanno, lasciando la ragazza in lacrime.
E fu proprio con delle chiavi inglesi che un gruppo di “idraulici” colpì a morte Sergio Ramelli sul portone di casa sua. L’agguato avviene il 13 marzo 1975. Vi partecipano in sette, tutti studenti di Medicina. Fanno parte del servizio d’ordine di Ao, a Città Studi, comandato da Roberto Grassi. Tutti ragazzi di buona famiglia, figli di medici o della borghesia lombarda. Hanno un difetto: sono flaccidi, poco combattivi. Li ricordo cazzeggiare fra di loro nell’aula Laser di Fisica. Per questo Grassi li richiama e chiede loro un’azione eclatante: fare un cucchino a Ramelli, un ragazzo di destra che Grassi conosceva bene in quanto aveva frequentato anche lui il Molinari.
E qui occorre aprire una parentesi sul clima che si respirava nelle scuole superiori e nelle università milanesi in quel periodo. Le tre maggiori organizzazioni della sinistra extraparlamentare – Movimento Studentesco, Avanguardia Operaia, Lotta Continua – si dividevano il territorio. La prima alla Statale, il loro feudo, presidiato dai temibili Katanga, il loro servizio d’ordine, e in molti licei. La seconda a Città Studi e nelle scuole tecniche vicine. La terza a macchia di leopardo, in Milano ma più attiva nelle fabbriche con i suoi Cub, Comitati Unitari di Base.
In tutte le scuole o università il metodo era lo stesso: assemblee continue, occupazioni a raffica, scioperi per i più svariati motivi. Nessuna agibilità politica nei confronti di altre organizzazioni non di sinistra, leggi Comunione e Liberazione. Men che meno per i fascisti o considerati tali. Un clima pesantissimo fatto di intimidazioni, minacce, cucchini. Ramelli l’aveva vissuto al Molinari. Lo avevano individuato grazie a un compito in classe in cui aveva osato parlare male delle Brigate Rosse. Da lì il processo politico in assemblea, il dileggio continuo, le provocazioni. Tanto che suo padre decide di fargli lasciare il Molinari per iscriverlo in un istituto privato. Quando si presenta a scuola per ritirare i documenti è costretto a passare in mezzo a una canea urlante di compagni: urla, botte e sputi.
Ma la condanna di un ragazzo mite, che non aveva mai partecipato a un pestaggio o ad altre manifestazioni dimostrative, era già segnata. Sergio morì dopo 45 giorni di agonia dall’agguato, il 29 aprile 1975. Solo dopo dieci anni, grazie alla tenacia di un magistrato milanese, Guido Salvini, che ha scritto la postfazione al libro, i colpevoli vengono individuati e successivamente condannati.
Si chiude un capitolo della storia. Ma non possiamo dimenticare il retroterra sociale e culturale che stava dietro i fatti descritti nel libro di Rao. Professori, giornalisti, uomini di cultura, magistrati hanno contribuito a fomentare questo clima. Come scrive bene Salvini: “Accanto a quelle dei colpevoli, ci sono anche le responsabilità morali. Nel caso dell’omicidio Ramelli, i professori dell’Istituto Molinari, che non avevano vent’anni, hanno voltato la testa dall’altra parte. I processi e la persecuzione che Ramelli subiva da mesi a scuola sono avvenuti davanti agli occhi di tutti ma nessuno professore si è mosso per difenderlo. Hanno così tradito, per adesione ideologica o, forse anche peggio, per viltà, il loro compito educativo, e non mi sembra che, anche dopo l’omicidio, si siano resi conto della loro responsabilità morale”.
A onor del vero, non tutti. Al Molinari ci fu un insegnate di religione, don Antonio Piazza, che difese Ramelli quando, un giorno, i compagni di Ao lo scortarono fuori dalla scuola e con un pennello gli intimarono di cancellare delle scritte fasciste sui muri dell’istituto. Poco dopo due ragazzi in moto lanciarono una bottiglia molotov contro l’auto dell’insegnante che s’incendiò. Come si legge in una sentenza: “Lo scoppio dell’impianto a gas provocava numerosi feriti tra i vigili del fuoco intervenuti”.
Da ultimo, il dramma di molti compagni alla fine di quel martoriato periodo. Quando si sciolsero le organizzazioni della sinistra extraparlamentare qualcuno scelse la lotta armata. La maggioranza si rifugiò nel privato. Qualcuno nella droga e nell’alcol. Roberto Grassi, il mandante dell’omicidio Ramelli, si suicidò con il gas di scarico nella sua auto.
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