C’è molta preghiera, domanda di grazia e di perdono nell’ultimo libro di Paolo Valesio, Il Testimone e l’Idiota, in libreria per La nave di Teseo. Formatosi come studioso di linguistica e di retorica, per lunghi anni docente in prestigiose università statunitensi, in Valesio si sono gradualmente affermati degli interessi in proprio che lo hanno sempre più avvicinato alla poesia, o meglio al “pensiero poetante”, per ricorrere a una celebre espressione di un altro critico poeta come Antonio Prete.
Forse il libro di passaggio, la soglia tra i due orizzonti, è segnato, come sottolinea Alberto Bertoni nella prefazione, da Ascoltare il silenzio del 1986, un saggio che indagava il concetto di sublime attraverso i secoli, in cui il silenzio diventava la voce dell’Assoluto. Nel corso degli anni, Valesio si è posto sempre più in ascolto di queste voci, incarnatesi ora in personaggi, a cui, pirandellianamente, il poeta ha dato udienza. Dopo le pagine severe dei suoi saggi critici, Valesio ha progressivamente concesso sempre più spazio alla natura tutta interrogante della poesia, culminata in questo libro nella forma di un poema drammatico, in cui si alternano quattro protagonisti: due uomini, quarantenni, il Testimone e l’Idiota, che si spostano tra Bologna, Parigi e New York e che non si incontrano mai, se non nelle ultime pagine del libro; la Voce, dialogante con loro, ma all’insaputa l’uno dell’altro, comunica solo per posta elettronica e telefono; nella terza parte, un’altra protagonista femminile, la Fiamminga, sostituisce la Voce nel dialogo; sempre invisibile, si palesa solo alla fine con i due protagonisti.
Il libro di Valesio è un teatro di voci, genere vivo di una lunga tradizione letteraria: pensiamo al modello del Secretum di Petrarca, fino al Libro di Ipazia di Luzi. La cultura sterminata di Valesio spazia tra fonti letterarie, filosofiche, musicali, mistiche, teologiche, tessendo un dialogo indiretto, come scrive nelle pagine introduttive, fondato sull’ascolto e sull’apertura verso ogni possibile voce, pronta ad insinuarsi “tra l’una e l’altra / fenditura nello spazio e nel tempo”. Le voci, come dramatis personae, si cercano e si nascondono, tra “corridoi di occasioni perdute / lacune di visite e viste che avrebbero potuto/ divenire visioni”, alla ricerca di “ogni scorcio (sghembo, angusto, tagliente) / di quella che lui osa sotto voce ancora chiamare ‘bellezza’ / è una concessione gloriosa al suo tempo di vita. / Il ritmo inevitabile di questo su-e-giù del cuore / lo lascia stordito / più ancora che stupito”.
L’autore, tornato nella natia Bologna dopo gli anni di insegnamento americani, recupera i nostri classici, Dante, Petrarca e Tasso, affiancandoli alla grande tradizione anglosassone, da Shakespeare a Pound, a Eliot e soprattutto alla Bibbia. Con il testo sacro i personaggi instaurano una caccia incalzante, e il termine ci fa subito pensare alle ultime grandi raccolte di Caproni e all’opera di Pasolini, autori affiancati a Valesio dal teologo Marcello Neri. A un Dio lontano e insieme familiare, Valesio scaglia i suoi dardi-giaculatorie: le poesie sono frecce ma anche preghiere. Consapevole del cammino da intraprendere: “O tu entri in una pace più profonda / di ogni tua profondità presente / oppure non avrai pace, mai”.
È la pace che implora: “Ti confesso che stavo ad aspettare / (contro ogni speranza: la Voce quasi mai si ripete) / che di nuovo dicesse / quelle parole, confessasse quel richiamo / al passato come un’ascia. / Ma adesso basta: pace (almeno per un tratto) / nel silenzio che passa da me a te”. La ricerca è inesauribile, come viene ricordato con le parole di Simone Weil: “Un idiota di villaggio, nel senso più letterale della parola, che ami realmente la verità (…) è nel suo pensiero infinitamente (…). più vicino a Platone di quanto non sia mai stato Aristotele”. Dice il Testimone: “È meglio in realtà non maledire / né la luce né il buio -/ e nulla in tutto ciò, Fiamminga, è semplice. / Il buio dovrebbe essere studiato, / la luce dovrebbe essere pregata”.
Il poeta non teme di stravolgere il linguaggio, torcendolo in arditi neologismi. “Il mio non è allora un ‘basta’ di ribellione / ma un ‘basta’ di esaustione. / Non posso incarnadine, / posso solo rispondere / al rosso con il bianco / del voto validato, ma muto e vuoto – / il voto nullo: la scheda con il ‘No’”. Sulla scia evangelica, la mitezza diventa una “mietitudine”, capace di trasformare “i campi dell’ira nel mondo”, “in messi biondeggianti”.
Come scrive lucidamente Anna Maria Tamburini nella post-fazione, “è il silenzio che apre lo spazio alla testimonianza.” Il silenzio si volge all’ascolto di una presenza, alle incursioni della grazia, perché “si è ricchi solo delle cose altrui”. Con il Kerouac di On the road, Valesio ripete di non aver nulla da offrire, se non la propria confusione. Ma essa, offerta e lanciata verso l’alto, “le imprime l’ascensione / e l’accensione del desiderio”. Così, il libro di Valesio parla proprio a noi, al nostro smarrimento e al nostro bisogno di salvezza.
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