Il cristianesimo è bello e grande e vero perché valorizza l’esperienza più umana che c’è: quella dell’incontro. Il Vangelo è costellato di incontri e su quegli incontri, attraverso l’arte e la poesia, si è concentrata la riflessione dei cristiani, umili o dotti che fossero. Gesù si lascia incontrare e va incontro. In ogni caso, entrare in rapporto con lui significa fare un’esperienza di senso, capirsi di più, ritrovarsi o magari entrare in crisi. La ferita, nell’incontro con lui, si può rimarginare o aprire, tutto si mette in movimento, a cominciare dalla libertà. Cristo si rende incontrabile, perché ogni uomo entri in contatto con Dio: il Verbo si è fatto carne non solo per questo ma anche per questo.



La bellezza drammatica dell’incontro con Cristo ci viene riproposta oggi da un trittico di atti unici di Riccardo Prando, dal titolo Il traditore, il soldato, la peccatrice (Macchioni editore, 2023). Atti unici “per la passione”, come viene specificato, perché qui l’incontro avviene nel momento più terribile, al cospetto del sacrificio supremo del Dio fatto carne.



I protagonisti li conosciamo tutti: sono prima Giuda, quindi l’anonimo soldato che vince ai dadi la tunica insanguinata di Cristo e infine Maria Maddalena. I tre si presentano in successione sulla scena e la dominano totalmente con un lungo monologo che si svolge apostrofando continuamente il pubblico, noi, uomini in apparenza tranquilli che viviamo o “sopravviviamo”, per dirla con Eliot, in mezzo a tutte le nostre contraddizioni, pronti magari a giudicare.

E Prando ha scelto proprio tre individui “giudicabili” da un pubblico di onesti uomini tranquilli: il traditore per antonomasia, Giuda “Iscariota”, quello cattivo, ben distinto da Giuda Taddeo, quello buono; un soldato romano, rappresentante di quella razza di uomini che si degradano a bestie, che “eseguono gli ordini” più infami, perché questo è il loro compito e il loro mestiere; un boia, un aguzzino; Maria la prostituta, la donna usa e getta, ridotta a un corpo, uno strumento di piacere e nulla più; quella che viene usata e si lascia usare e su questo mestiere vecchio come il mondo costruisce la propria misera ricchezza. Prando ci porta a teatro per ascoltare questa umanità degradata.



Ma, e questo è il bello e il grande di un autore cristiano, ecco che questa bassa umanità ci parla dell’incontro con un uomo che non era solo un uomo. Con qualcuno che si poteva guardare, ascoltare, toccare, perfino torturare, ma non se ne usciva indifferenti, perché guardarlo, ascoltarlo, toccarlo, torturarlo significava in qualche modo misterioso entrare in contatto con Dio, con quella Presenza che l’uomo non riesce nemmeno a concepire, a volte, ma della quale non può fare a meno.

Giuda lo sa che ha tradito Dio; il soldato romano, che ne tiene in mano la tunica insanguinata, sente che una virtù, una forza soprannaturale ma straordinariamente mite e buona si è riversata su di lui; Maria la peccatrice non ha il minimo dubbio sulla natura e l’essenza di Gesù, lei che è stata poi anche al sepolcro e l’ha visto vuoto, ma è ugualmente sconvolta, perché si sente indegna di tanta grazia.

I tre vengono a turno sulla scena, raccontano l’esperienza del loro incontro, cercano di spiegare, di interpretare, di dire tutta la loro confusione. Si giustificano, si accusano, si fanno domande, tentano delle risposte. L’incontro col Dio fatto uomo li ha messi in movimento, li ha del tutto destabilizzati. Eppure quell’incontro è la cosa più umana che avessero mai potuto sperimentare. Si capisce bene da come parlano, da come si muovono. Poi l’esito è diverso a seconda della storia di ognuno, della libertà di ognuno nel seguire o meno la provocazione di quell’incontro.

Già, la libertà. Qui, mi sembra, Prando ci fa capire l’errore di Giuda, in fondo incapace di credere fino in fondo a quell’uomo, di guardare con umiltà i semplici fatti che gli si si stendevano davanti agli occhi, i miracoli operati da Cristo. Incapace anche di ascoltare il suo invito a guardare (“i fiori del campo, gli uccelli del cielo…”). “Io guardavo sempre altrove”, confessa. Egli a un certo punto rivela di avere sempre amato Gesù, ma allora perché l’ha tradito col suo bacio? Colpa del Destino, dice lui. Risposta in fondo comoda: chi non regge alla sfida della libertà se la prende sempre col destino. Giuda chiede un posto nella storia, un posto nella rappresentazione della passione sul Calvario. Lui non è rappresentato, è stato cancellato, non ha posto nel mondo. Eppure vorrebbe starci, anche solo per testimoniare il proprio errore. Anche rappresentato spalle al pubblico, col volto rivolto, finalmente, verso colui che non ha mai voluto guardare realmente nella vita.

Invece il soldato romano lo sguardo di Cristo l’ha incontrato. Nel momento in cui stava per conficcargli il chiodo nel polso, col martello alzato. Un gesto di routine, in fondo, per un boia, ma quello sguardo muto… un soldato lo sa, lo riconosce lo sguardo di un malfattore, e quello non era un malfattore. Non ce l’ha fatta, è stato vinto, ha dovuto farsi sostituire. E ora brandisce la sua tunica insanguinata, che voleva ad ogni costo vincere perché era un gran bel pezzo di stoffa, un capo da ricchi, da benestanti. Ma lo restituirà, dice. Dopo quello sguardo, che farsene di un pezzo di stoffa? Che vale tutto il mondo? Non ha più valore quello che siamo? Che cosa potremo dare in cambio di noi stessi? Il soldato è un io in crisi, una marionetta che dopo quello sguardo comincia ad avere un cuore umano.

E poi Maria, che non ha solo incontrato lo sguardo di Cristo, ma ne ha sentito la voce che la chiamava per nome. Maria che parla delle sue esigenze e chiede al pubblico di non fraintenderla: quando usa parole come amore, attimo, eternità, cielo, desiderio, incontro (appunto)… aggiunge, scusandosi se lo ripete ogni volta, che le intende scritte “con la maiuscola”. Perché lei, la peccatrice, parla delle esigenze fondamentali che ci costituiscono: “Volevo solo vivere, niente di più. Mangiare non mi bastava. Respirare non mi bastava. Sopravvivere, insomma, non mi bastava. E nemmeno passare dalle braccia di uno in quelle di un altro, mi poteva bastare più. Volevo – adesso lo vedo bene, ma spiegarlo mi rimane difficile – immergermi nell’amore di un uomo vero, uno solo, ma che fosse per me e che fosse per sempre. Solo l’amore per sempre basta”.

Alla Maddalena Prando assegna il compito di toccare l’apice lirico e della profondità dell’esperienza umana: “Yeshu’a si era voltato e in un attimo mi aveva amata, cioè abbracciata, guardata, abbracciata e amata, così com’ero, lo capite questo? in un attimo aveva amato il mio peccato. E col mio peccato tutta me stessa”. Ed ecco che il peccato non “definisce” più, non blocca più, non inchioda più. Siamo alla posizione ribaltata rispetto a Giuda, che voleva essere inchiodato, raffigurato per sempre, definito dal proprio peccato, non credendo all’ultimo grande miracolo di Cristo: quello della redenzione.

Un’opera densa, questa di Riccardo Prando, nella quale i personaggi gridano il loro dolore, il loro bisogno, la loro domanda, gridano a noi, continuamente chiamandoci in causa, continuamente richiamando la nostra attenzione. Perché anche noi, come loro, possiamo sentire la stessa povertà e aprirci alla stessa mendicanza. Vivere, non soltanto sopravvivere.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI