La mobilità al massimo facilitata può sembrare una straordinaria conquista degli ultimi tempi moderni. Da qui, viaggi e vacanze sempre più frequenti all’estero, in luoghi anche esotici e lontani, studi e attività di lavoro spesso dilatati a un orizzonte internazionale, che tendono a diventare la norma per una estesa porzione delle società del nostro presente…
Ma non ci sono solo gli spostamenti dettati dal gusto personale, dalle disponibilità di risorse superflue o dalle scelte volontarie per l’ascesa nella carriera. I riflettori sono puntati anche sulle migrazioni forzate, sugli esodi della disperazione che coinvolgono fiumane di profughi, spingendoli fuori dalle aree di crisi e di povertà diffusa, dando corpo al miraggio di un possibile riscatto dall’arretratezza garantito dalle condizioni di privilegio delle zone ricche del pianeta.
Tutto questo complesso scenario contemporaneo, se osservato superficialmente, rischia di profilarsi segnato dai caratteri di una destabilizzante novità originale, a causa della quale siamo chiamati a fare i conti per la prima volta con le dimensioni di un imponente rimescolamento di popoli e gruppi umani, che moltiplica i contatti tra identità diverse e le espone all’acuirsi dei conflitti culturali.
Ma anche il solo caso italiano dimostra che il paesaggio odierno presenta ben poco di eccezionalmente inedito. La forte mobilità e la diffusa propensione all’interscambio demografico sono assolutamente inscritti nel patrimonio genetico dell’intero mondo moderno. Non c’è mai stata una prevalenza della fissità stanziale. Nessun contesto sociale è rimasto chiuso nelle prigioni di una paralizzante refrattarietà alle contaminazioni con le realtà esterne, ignorandole completamente.
Neanche le società preindustriali dei secoli scorsi, abituate a scandire la loro esistenza all’insegna della lentezza esasperante dei trasporti e degli spostamenti a piedi o con umili mezzi animali, erano società sedentarie. Non c’erano ferrovie, aerei, autostrade. Ma la differenza era solo di grado, nell’ordine quantitativo dei tempi e delle misure. Non toccava alla radice la sostanza delle dinamiche secondo cui evolveva e si organizzava la vita di comunità umane già arrivate a uno stadio avanzato di sviluppo.
L’idea della capillare permeabilità reciproca traspare con esemplare evidenza fin dalle pagine introduttive alla raccolta di saggi curata da Emanuele Pagano, che ha da poco visto la luce per i tipi di Viella: “Immigrati e forestieri in Italia nell’età moderna” (giugno 2020).
Nel centro cosmopolita del governo supremo della cattolicità, in quella grande città di Roma che restava uno dei crocevia fondamentali per l’intero cosmo dell’Antico Regime, i dati pur approssimativi dei censimenti pre-statistici attestano che, a inizio Cinquecento, solo il 16% della popolazione residente era costituito da nativi del luogo, mentre i forestieri provenienti dalle varie contrade della penisola raggiungevano, a quanto pare, il 64% e il restante 20% inglobava stranieri originari degli altri paesi europei e dell’intera area mediterranea. Per il secolo successivo, sappiamo che all’incirca il 71% dei matrimoni celebrati nella capitale pontificia doveva includere almeno un coniuge forestiero.
In un altro dei maggiori agglomerati urbani aperti ai circuiti di un poliedrico scenario politico-economico e culturale (Venezia), i soli greci di fede ortodossa abbracciavano, all’altezza del 1606, non meno di un decimo del totale degli abitanti. Al loro fianco proliferavano le colonie “nazionali” dei più diversi contesti italiani, a cominciare da quelle dei lombardi e dei toscani, che poi venivano a intrecciarsi con gli apporti dei marinai, dei soldati, degli uomini di fatica, degli artigiani e dei commercianti di origine tedesca, delle coste dalmate, dell’Albania, delle terre balcaniche (gli “schiavoni”), di provenienza iberica, inglese, di stirpe ebraica.
Per quanto riguarda Torino, già il censimento napoleonico del 1802 segnala un afflusso di provenienza esterna che doveva risultare superiore al 40% dell’intero contingente della popolazione di sesso maschile.
Ugualmente Genova ospitò, dal secolo XII in avanti, gruppi cospicui di lombardi, toscani, salernitani, amalfitani, ragusei, catalani, provenzali, fiamminghi, tedeschi, inglesi e di nuovo ebrei. Alle mansioni lavorative più umili si dedicavano maltesi, greci e altri oriundi del Mediterraneo orientale, ma notevole era anche la presenza degli schiavi veri e propri, di origine orientale (circassi, russi, tatari) e nordafricana.
In pieno Rinascimento, nel XV secolo, tale strato di servitù oggetto di proprietà diretta sulla persona arrivava probabilmente a coprire il 4-5 % della popolazione genovese, ed è interessante precisare che, invece di restare condannati a uno stato di perenne subalternità degradante, diversi di questi schiavi al servizio dei cristiani poterono essere liberati e aprirsi, dal basso, una strada per l’inserimento nel tessuto sociale cittadino.
A Milano, nelle città toscane, negli snodi portuali del centro-sud, come Napoli, Messina o Palermo, la medesima scena si ripresentava con caratteri sostanzialmente analoghi, fatte salve le ovvie sfumature di specificità tipiche di ogni singola realtà locale. Vistose e senza dubbio incisive sono state le tracce che questo insieme di fenomeni ha lasciato impresse nella vita tradizionale del passato.
Non per niente, diversi contributi riuniti nel volume di cui stiamo parlando (una prima panoramica generale a opera mia, insieme ai sondaggi di Alessandro Serra per il caso di Roma e di Alessandro Corsi per la città di Milano) sono dedicati alla ricostruzione delle fitte reti di legami che i forestieri attirati in ogni singolo centro urbano di prim’ordine così come nei borghi più popolosi erano stimolati ad annodare per rimediare alle insidie dell’isolamento e, fin dove possibile, sostenersi l’un l’altro a vicenda.
Solo eccezionalmente lo straniero restava abbandonato al suo destino individuale. Gli immigrati, anche solo temporanei, provenienti dai medesimi luoghi si aggregavano in strutture di raccordo riconosciute dall’autorità pubblica e dotate di propri organismi direttivi, investiti di ruoli di vigilanza sui comportamenti e di controllo giudiziario sulla rottura delle regole di vita condivisa. Spesso davano origine a fratellanze di matrice religiosa che si riunivano nella cappella o nella chiesa della “nazione”, continuando a coltivare il culto dei santi patroni delle terre di nascita e facendo da filtro a una catena di rapporti che la distanza fisica non poteva troncare, ma solo ridisegnare in una forma diversa.
Così anche l’estraneo poteva tentare di sfuggire al rischio di trovarsi da solo e impreparato nell’affrontare gli imprevisti di una esistenza tutt’altro che sempre comoda e felice. Ci si poteva abbracciare nel vincolo di una fede comune. Ci si aiutava anche materialmente nei momenti di disagio, mentre non di rado ospedali e luoghi di ricovero gestiti dall’alleanza di una compagnia di “uguali” supplivano alla mancanza pressoché completa di un sistema di welfare gestito per la totalità della comunità sociale dai vertici del potere.